Cronache dal Maranhão

Cronache dal Maranhão

copertina
anno
2006
Collana
Categoria
pagine
256
isbn
88-8176-865-8

Non è proprio una cronaca, non è proprio un romanzo, è la vita stessa di un Brasile povero e duro, lontano dal turismo di consumo, con la gente fiera, coraggiosa, cordiale, ciarliera, questo racconto. Dove i personaggi con i loro veri nomi sono rigorosamente reali e in primo piano. E si fanno amare.
 

Giulio Martinoli è nato nel 1942 a St. Helier, nell’isola di Jersey, sulla Manica. Laureato in Lingua e letteratura inglese, ha insegnato per oltre trent’anni nelle scuole medie superiori. Ad Omegna ha diretto la Biblioteca civica ed è oggi attivo operatore culturale. I numerosi viaggi nel mondo e la passione per l’arte e la letteratura sono la base delle sue pubblicazioni.

Incipit

Il passaggio della Barra das Preguiças

     Il 3 novembre del 1864 una violentissima tempesta oscurò l’intero cielo all’improvviso e scagliò la nave a vela francese Ville de Boulogne contro le quant’altre mai insidiose secche che si ergono proprio davanti all’estuario del fiume Preguiças (A Barra das Preguiças), sulla costa sud-orientale del Maranhão, dentro il quale stava forse cercando un rifugio temporaneo. Se avessero meglio conosciuto la conformazione della costa e i pericoli della piattaforma continentale, quegli sfortunati navigatori avrebbero magari preferibilmente scelto di spingersi al largo anziché verso la terra, evitando così il disastro che invece seguì alla loro decisione, la quale risultò essere la più facile soltanto in apparenza.
Il veliero proveniva dall’Europa ed era ormai pressoché giunto alla sua destinazione, trovandosi in quel punto a circa una giornata e mezza di navigazione dal porto di São Luís, l’allora assai prospera capitale di quello stato del Brasile e tra i più cospicui centri cotonieri dell’intera America Latina.
Non si sa molto della stazza e delle caratteristiche di quella nave, né si ha notizia precisa di quante persone si trovassero a bordo al momento del naufragio, né quante tra loro perirono, né quante invece riuscirono a salvarsi. Si può presumere che queste ultime possano essere state parecchie, penso io, poiché la disgrazia avvenne a poche decine di metri dalla riva. Sicuramente i generosi ed esperti pescatori dell’antistante villaggio di Atins, di fronte alle acque sempre tranquille che si trovano appena al di là della barra, saranno accorsi fuori verso il mare aperto, con le loro agili lance, in aiuto di quei poveretti.
Non era tra i superstiti del naufragio, purtroppo, il più illustre tra i passeggeri di quella sfortunata traversata oceanica, il grande poeta e drammaturgo romantico Antônio Gonçalves Dias, uno dei bardi autentici del suo grande paese, vera gloria del ricco Brasile da poco indipendente. Era costui il cantore del sabiá, l’uccellino dalla voce dolcissima e malinconica, simbolo della saudade e del sentimento dell’esilio; tradotto persino, il Gonçalves Dias della Canção do exílio, dal nostro Giuseppe Ungaretti. Piuttosto mediocremente, in verità.
Stava egli appunto rientrando in patria al termine di un secondo lungo esilio volontario (il primo era coinciso con il suo grand tour giovanile in Europa, oltre che con gli studi di giurisprudenza a Coimbra), a ricevere il meritato plauso dei connazionali, dopo che la sua opera aveva ricevuto quello, convinto e unanime, dei letterati di Portogallo, di Francia e di Germania. Era nato a Caxias, nel Maranhão orientale interno, non lontano dal confine con il Piauí, appena quarantun anni prima, il 10 agosto del 1823. Come spesso capita in casi del genere, la sua morte precoce ha contribuito poi ad alimentarne la leggenda di poeta e di grand’uomo, fino ai giorni nostri, anche presso il popolo minuto1.
     Nel febbraio del 2003, a bordo dello splendido cúter aurico Nárvalo III, di proprietà del mio grande amico Alberto Arcangeli, con altri tre compagni di viaggio oltre a noi due, ho attraversato per ben quattro volte la terribile barra, due volte in entrata e due in uscita, e posso assicurare che ognuna di quelle esperienze è stata abbastanza terrificante.
Rientrati due settimane dopo a São Luís, Alberto, Leónidas, Jefferson e io (Romildo, il quinto membro dell’equipaggio, ci aveva lasciati a Tutoia), ci eravamo attardati a contemplare il nostro veleiro tirato in secca, ormai sano e salvo, sulla spiaggia di Ponta d’Areia, sullo sfondo di un infuocato tramonto, in compagnia di alcuni marinai e pescatori, tra i quali il nostro amico João da Amélia e un certo Cándido, un tipo basso dal fisico asciutto e nervoso, all’incirca della nostra età (mia, di Alberto e di Leo; non di Romildo e Jefferson, che quasi potrebbero essere nostri figli), il quale io non avevo ancora mai incontrato né sentito nominare.
Ascoltando il resoconto delle nostre peripezie nell’attraversamento della barra das Preguiças, il marinaio Cándido (che è un sempliciotto qualsiasi, ma dall’aria piuttosto furba e persino un poco maligna e proprio per nulla candida –nomen non omen, per quel che lo riguarda–, del quale non c’è nemmeno molto da fidarsi ad affidargli un compito qualsiasi, secondo Alberto, dal momento che ha una piuttosto forte propensione per le bevande alcoliche) improvvisamente si era come illuminato e aveva esclamato, con sapiente ironia e in forbito portoghese:
«Foi aí que faleceu o poéta!» Fu laggiù che defunse il poeta. Proprio così si espresse, quasi poeticamente anche lui. Nel Maranhão, che pure ha dato i natali a un discreto numero di scrittori famosi, al punto che São Luís si meritò, nella seconda metà dell’ottocento, l’appellativo di Atenas Brasileira, Antônio Gonçalves Dias è considerato ancor oggi il poeta per antonomasia. La sortita di quel tale illetterato Cándido bene me l’aveva dimostrato.