Gli occhi sul tempo

Gli occhi sul tempo

copertina
anno
2008
Collana
Categoria
pagine
200
isbn
978-88-6266-089-1
17,10 €
Titolo
Gli occhi sul tempo
Prezzo
18,00 €
ISBN
978-88-6266-089-1
nota
Note di Giorgio Bàrberi Squarotti e Walter Mauro
La poesia di Gianni Rescigno dà, a questo punto (che è altissimo, nella completezza del culmine), un senso di grandioso appagamento.
La scrittura è fondamentalmente narrativa: muove dalla visione o dalla rievocazione che rampolla dalla memoria, per svolgersi poi verso il racconto della mente e, al tempo stesso, dello sguardo sempre attento, incisivo…
La poesia di Menotti Lerro è la prova dell’infinita predicabilità della poesia: rapidamente concretata in sentenze, in squarci improvvisi, in giudizi drammatici e dolorosi, rigorosamente prosciugata fino alle proclamazioni di una disperata tragicità.
Giorgio Bárberi Squarotti
Gianni Rescigno è nato nel 1937. Vive nel Cilento, a S. Maria di Castellabate. Ha pubblicato sedici raccolte di poesia.
Menotti Lerro è nato nel 1980. Insegna la lingua e la cultura inglese in un liceo di Vercelli. Il suo primo libro di poesie è del 2003.


Itinerari d’esperienze


La poesia di Gianni Rescigno dà, a questo punto (che è altissimo, nella completezza del culmine), un senso di grandioso appagamento: e il titolo della raccolta, Gli occhi sul tempo, compendia in modo molto efficace l’itinerario di un’esperienza di scrittura poetica durata anni e anni, per arrivare a offrire ora la gioia sicura della bellezza e della verità della vita, della sequenza delle stagioni, del sapiente riassaporamento della memoria delle vicende dei sensi e dell’anima. La citazione del tempo è la migliore spiegazione del progetto poetico di Rescigno: che ricupera estati, emozioni amorose, sogni, lune, notti, alberi, animali, segreti, venti, aurore, emozioni del cuore, per rinarrarli una volta ancora in modo che siano saldamente fissati nella parola, nel ritmo, nelle metafore ingegnose e avventurose, con il senso di una verifica definitiva, espressa una volta per tutte, nel trascorrere degli anni e nel pericolo inquieto di poter perdere quanto il poeta ha raccolto nel trascorrere nel suo tempo. È, al tempo stesso, una conquista e un dono prezioso, che giunge fino alla visione di Dio, con serena dolcezza, come per l’incontro naturale, che si attua limpidamente nel volgere della giornata, e la letizia è, insieme, facile e sublime, colma di speranza e consapevole del tanto che il poeta ha ricevuto e goduto.
Penso a un testo esemplare, come è Il pane della sera:  “Tu dimentichi / che s’incontrava Dio / quando il sole col rosso / c’incantava gli occhi / rispetto e timore / in formicolìo di sangue / salutavamo il cielo / al tocco di campana / raddrizzavamo la schiena / curva sulla terra / da cui si prendeva il pane della sera […] ma a Lui / la mente s’orientava: / era seduto / sulla prima stella / le parole / camminavano col cuore”. La scrittura di Rescigno è fondamentalmente narrativa: muove dalla visione o dalla rievocazione che rampolla dalla memoria, per svolgersi poi verso il racconto della mente e, al tempo stesso, dello sguardo sempre attento, incisivo, capace di rivedere in modi diversi e con infinite variazioni le occasioni dell’esistenza. È come se, in questo modo, Rescigno voglia ripronunciare la natura e i sentimenti, le persone conosciute o amate, gli animali e le piante, quasi che egli, per la forza della poesia, possa così nominare, per una volta ancora e nella forma suprema, la creazione, il giardino che è il mondo, quanto, appunto, Dio ha offerto, e il privilegio del poeta è davvero straordinario poiché a tanto è in grado di giungere nella rivelazione e poi di descriverlo e raccontarlo al lettore. Penso a un testo come Passaggio, nella sequenza conclusiva e riassuntiva: “Ora incominciamo a rimettere / la luna, le stelle, ogni cosa al proprio / posto per interrogare a braccia aperte / i misteri della vita, per sapere / quando inizieranno i voli delle rondini, / e se i fichi lacrimeranno miele in abbondanza”. Nella ricapitolazione della pienezza del mondo, in modo vertiginoso, Rescigno passa dal cosmico al quotidiano, che, però, per sottile saggezza della parola, è nutrito di emblemi, come appare dal volo delle rondini quali figure del futuro, delle avventure della vita, delle attese trepide delle nuove nascite dopo l’ombra dell’inverno, oppure dai fichi il cui miele significa l’ulteriore proposta della gioia, del piacere, dell’amore.
Così Rescigno parla per tali immagini di speranza e di amore; e la citazione della luna e delle stelle è l’altra offerta, anzi l’altra certezza della fede. In Acqua d’autunno ecco, allora, l’altra rappresentazione della speranza, delle stagioni che hanno in sé sempre lo slancio del futuro, la certa attesa del dopo nel ciclo del tempo, che non sono l’occasione delle descrizioni naturalistiche, ma piuttosto le varie allegorie dell’esistenza che si prolunga e si ricrea, e la poesia ne è la dimostrazione: “Quest’acqua d’autunno / così nuova che scioglie / grumi di sabbia / impantanati nello sguardo / quest’acqua muove l’anima / dall’uno verso l’altro senza sospetti / ed è canzone di maggio / cantata per sbaglio da novembre”. Rescigno, sì, racconta ed esprime le sue speranze nella memoria del passato acquetato e nell’attesa che gioia e solidarietà, affetti e conforti si ripetino ancora, pur nel dolore e nell’ansia: ma sempre il suo discorso appare percorso dalla saggezza della parola, e il turbamento e gli affanni, allora, finiscono a essere rasserenati e accettati come l’inevitabile condizione dell’uomo: “Vorrei sentire ancora che qualcuno / mi chiami e mi offra fichi e vino / là dove il vento fa follie di foglie / e sul viso intaglia rughe / per scrivere nel dolore eternità”. C’è, insomma, sempre un’alternativa di fiducia e di pace nella sequenza degli eventi umani.
Nel riflettere sulla morte, Rescigno giunge ugualmente alla stessa ferma accettazione della verità del vivere. La suprema conquista di questa poesia è tale fermezza del pensiero e del cuore, che non tremano e non temono, ma commentano lucidamente e, infine, rasserenatamente la varia avventura del tempo umano: “Sembra soltanto una parola la morte. / Parola che chiude la storia / d’un fiore o d’una vipera, / d’una stella che più non si rivede. […] E lei aspetta che si consumino sole / e cielo, che si riduca a un punto / l’arco del miraggio. È in noi, ben nascosta / per il balzo sulla vita”. C’è costantemente in tutte le forme e le formulazioni delle descrizioni, delle meditazioni, delle sentenze della poesia di Rescigno l’impressione che la parola, pur nutrita di tempo e spazio, ne sia ormai al di là, nel raggiungimento della sintesi delle esperienze e delle creazioni dei ritmi e delle parole. Ci sono, allora, testi che ascendono alla visionarietà più pura e stupita, e il fatto, l’occasione della stagione o della giornata, si trasfigurano nel più felice gioco. Penso a Sui prati della notte, nella sequenza conclusiva delle lasse: “Stasera ho sentito la luna lamentarsi / col sorriso. / China sul terrazzo (senza riconoscerci) / ci ha sfiorato il viso. / Non t’ho chiamata. / Saliva indifferente… / Alle cime delle nuvole saliva. / Senza inganno altri come noi cercava: / in estasi sui prati della notte”.
Rescigno alterna l’endecasillabo a ritmi liberi, ma sempre attentamente regolati e calcolati in rapporto con le diverse variazioni di riflessioni e visioni, di emozioni della stagione e di illuminazioni dell’anima. Penso a testi di particolare ricchezza interiore che si aprono nella contemplazione della natura e nella tensione dei sensi per concretarsi alla fine nell’esclamazione gioiosa dell’amore che si rinnova continuamente, proprio in conseguenza dell’incontro con la ravvivata bellezza delle cose: “L’aria è menta salvia / vapore di resina tra scontri di respiri. / Con suoni chiari / frantumi riversi sugli scogli / parla il mare… Ed è precipitare / di raggi il cielo. / Lieve andirivieni la tua carezza / fonda nuovo amore / su vecchie pietre”. A tali rappresentazioni ed esplicazioni della varietà della vita Rescigno aggiunge qualche sconsolata riflessione morale sulla storia e sulle sconfitte della fede e del valore del futuro in cui pure crede. Sono i momenti, del resto abbastanza circoscritti, in cui il poeta mette a confronto con la realtà del nostro tempo l’altro tempo vero della natura e del trascorrere della propria esperienza dell’anima e del cuore. Questo rimane la misura assoluta ed esemplare della sua ricerca poetica, fin dalle origini, e via via fino al perfezionamento supremo. Nei momenti più essenziali e luminosi, che propongono l’approdo lirico e metafisico dell’itinerario della scrittura di Rescigno, abbiamo alcuni componimenti che per folgorazione congiungono descrizione e racconto, visione e descrizione. Penso, per esempio, ai sette versi che hanno come titolo il primo verso emblematico: “Vanno alle onde / nude nell’incontro / la carne e la parola. / Si immergono i ragazzi / là dove trema la luna. / I bisbigli sono farfalle / mai viste volare nella notte”. Non si potrebbe davvero dire meglio; e anche i testi che raccontano la biografia di personaggi del paese o della famiglia, che interrompono ogni tanto la linearità del discorso, come Zia Concetta e Manganiello, non sono altro che l’effusione della parola, che giustifica la molta quantità di scrittura di Rescigno. E, allora, proprio il testo conclusivo della raccolta dà la migliore spiegazione per il lettore della pienezza poetica di Rescigno: “Di terra arsa / sanno le nostre mani. / Al bivio di ogni sera / attendono che il giorno / a nuovo paesaggio d’amore / le congiunga”. È la ricchezza dell’amore della parola a sorreggere l’opera di Rescigno, sempre, nella diversità delle rappresentazioni.

La poesia di Menotti Lerro, invece, è la prova dell’infinita predicabilità della poesia, nel senso che appare l’opposto per impostazione, argomenti e concezione, dell’opera di Rescigno: rapidamente concretata in sentenze, in squarci improvvisi, in giudizi drammatici e dolorosi, rigorosamente prosciugata fino alle proclamazioni di una disperata tragicità. Ben poco c’è intorno: paesaggi, emozioni, visioni sono bruciati immediatamente nel verso perché ben presto il discorso giunga all’essenziale del concetto, della realtà sempre cupa dell’esistenza e del mondo. Il discorso di Lerro ha un che sempre di febbrile, onde il verso arriva subito alla spiegazione e al giudizio. Del tempo Lerro coglie la velocità del trascorrere, e il senso di perdita pressoché istantanea di gioia, di spessore dell’esistenza, dei sensi e delle stesse aspirazioni e appartenenza delle cose, dei corpi, dei desideri, della durata. Tutto precipita verso il logoramento. La vita dolorosa com’è, è spesso tragica, non più che un’immagine che fugge via, un riflesso fulmineo, come una serie di riflessi nello specchio del tempo, che appare, allora, come un’illusione fragile (platonica: come quella delle figure che passano e scompaiono sulla parete della caverna illuminata), e lo spazio è anch’esso illusorio, come dice esemplarmente il primo componimento della raccolta: “Invecchiamo negli occhi della gente / o quando, nell’aprire un armadio, / lo specchio ci sorprende. / Invecchiamo immersi a mezzo busto nei nostri fiumi, quando scorrono le immagini tra mille pieghe; invecchiamo / nei riflessi perversi delle posate e dei bicchieri”. Il tempo non ha memoria: e il fiume di Eraclito non vede l’immergersi dell’uomo nel trascorrere della sua esistenza, ma soltanto un’immagine, infinitamente allora flebile e pallidissima. Tutto si disfà, anche i sogni che sono riflesso di un riflesso della mente, non visione, non invenzione: “Nulla ci appartiene / se non i sogni, le immagini confuse della notte, / le voci che più non distinguiamo”. Lo stesso possesso dei sogni è, però, fuggevole, ed essi si confondono e si smarriscono nel tempo senza spessore. Ripete, infatti, Lerro, fino alla verifica dell’impossibilità della memoria e di ogni rievocazione ed esperienza e incontro: “Se dovessi descrivere un solo volto, / uno, uno soltanto, / dei tanti volti incontrati lungo il mio cammino, / non saprei farlo. […] Sono assalito da un fatale sbriciolarsi delle linee / e di ogni corpo non resta in questa testa / che un’ombra, ombra oscura, / senza volto né voce”. È una rappresentazione tragica del mondo, tanto più incisivo e profondo quanto più ha, di fronte, la consapevolezza della perdita fulminea del tempo e del corpo e delle stesse apparizioni.
Reale rimane sempre il senso dello sparire di tutto: penso, come esempio quanto mai significativo, a questa mirabile riscrizione e reinvenzione della ballata delle dames du temps jadis di Villon: “Che ne è stato di quel chierichetto, / dei giochi coi gatti al sole? / Dove sono ora le preghiere confidate ai marmi, / le ostie sciolte con le penitenze? / Tutto è nebbia che avvolge le ossa”. Tutto quello che è stato si perde irrimediabilmente. La poesia di Lerro ripropone costantemente nella ricchezza delle variazioni delle occasioni e nella forma della pronuncia di cose ed eventi e delle persone e delle azioni lo sparire tragico di tutto, e qualche frammento di memoria non fa che acuire ulteriormente il correre della stessa parola pronunciata verso la dissoluzione (come dimostra anche la rievocazione del padre falegname e dei giochi dell’infanzia). Un testo come quello che inizia Vestiti sdruciti è il modello più efficace della rappresentazione del mondo come consunzione e dissoluzione delle cose come dei corpi. È un’elencazione che passa dall’indicazione delle notizie più semplici e comuni fino alla figurazione metafisica, con un risultato complessivo che tipicamente compendia il senso del mondo come Lerro lo vede e lo descrive. La stessa primavera si traduce dalla letizia dei voli e dei sogni nello spezzarsi dello slancio verso il futuro e le avventure (come dimostra Piccole luci tremolanti). L’infanzia della natura e dell’esistenza dura troppo poco: Lerro rinnova la proclamazione di Alexandros del Pascoli (“Il sogno è l’infinita ombra del vero”), ma il sogno gli appare anch’esso labile e fragile: è, sì, l’alternanza rispetto alla cancellazione del tempo e della troppo rapida conquista di novità e di gioia vitale nell’infanzia, ma è un desiderio in pericolo, è un’aspirazione, non garantisce proprio nulla, in quanto rimane contraddittorio e dubbioso (“Non ci resta che aggrapparci ai sogni, / all’ignoto”).
I pochi testi narrativi raccontano (e nel modo più essenziale e dolente) la realtà della crudeltà delle cronache del nostro mondo, anzi dell’intera vicenda dei secoli umani: “Gridava / la cagnetta punita, infettata. / «La vergogna non ha nome!» – ripeteva – / «solo odori, colori, dolori…». / In un deserto di fiori rossi cercava il dirupo, / la terra da scavare per seppellire il corpo”. C’è, in questa poesia, abbastanza evidente l’ossessione del disfacimento del corpo: al confronto non c’è l’anima, ma soltanto il sogno precario. Si legga la sentenza più veloce e rigorosa: “Poesia, Amore: significanti / di corpi che non sanno di esser morti”. Lo specchio è l’ombra di ombre, i corpi sono apparenze, le parole che furono rigorose e sacrali si sono disfatte. Concludo le mie osservazioni con una poesia narrativa di più ampio respiro, come proposta di una diversa scrittura nella costanza della tragicità del discorso: La storia di Alessia In-versi. Ha l’impostazione della ballata: la vicenda della vita di Alessia compendia tutta la serie di errori e di orrori, di disperazioni e di follia, di sogni e di sconfitte. La protagonista è colta in minimi eventi, ma sconvolgenti ed esemplari, e, subito dopo, in azioni e in situazioni di terribile pena e strazio. È un ulteriore esempio della significanza della ricerca poetica di Lerro: una lezione della disperazione della vita fatta parola, senza illusioni e conforti.


Giorgio Bárberi Squarotti


Due generazioni sul filo della parola


Questa doppia silloge, in cui due poeti di generazioni diverse si confrontano sul filo della parola e dei suoi destini presenti e futuri, accoglie in sé una così ampia raggera di significati e di simboli, che l’intera operazione finisce per travalicare del tutto l’entità del normale confronto epocale, al fine di lasciarsi andare verso orizzonti e richiami storici tali, da coinvolgere la storia stessa della nostra vita e le sue infinite divaricazioni. È evidente che nella tenzone linguistica e riflessiva di Gianni Rescigno e Menotti Lerro, il ruolo fondamentale viene giocato e ricoperto dal potenziale di approccio dell’uno e dell’altro, e quindi dalla dimensione stessa della sfida che i due si scambiano, uniti e accordati dall’esigenza di restituire ai destini della parola, alla forza intuitiva dell’eloquio, l’intera capacità di stabilire un emotivo dialogo con il lettore.
In questo senso, e in una simile direzione di tracciato umano e poetico, la parola di Rescigno si avvale dell’equilibrio della tradizione che prevede la stesura del canto, il dilatarsi della parola, fino ad assumere tonalità che coinvolgono la memoria, laddove essa rigetta ogni forma di nostalgica presenza, per innestarsi invece al vivo di un reticolo in cui linguaggio, realtà e dolorosa sua deformazione, si fondono e si intrecciano in un processo drammatico di rimandi che nulla concedono alla dimensione del vero se non la sua innata e congeniale solitudine: ecco, il polo tematico di questa ultima entità sembra dominare incontrastato nel tessuto ispirativo, poco o nulla concedendo ai dettami della fatalità e dell’ovvio. Così, in un simile contesto, i profumi, le stagioni, le storie già scritte, i desideri, gli slanci: tutto questo vive e trasuda un processo metamorfico che recupera l’uomo nell’intera e integra sua dimensione interiore, senza infingimenti, oltre ogni rivestimento retorico, per ritrovarsi, la parola, nuda e indifesa, al cospetto dell’aggressività del reale: e neppure la parvente dolcezza degli addii può lenire l’universo doloroso delle sconosciute inquietudini.
Lo scarto generazionale tra Gianni Rescigno e Menotti Lerro si individua solo apparentemente, e ad occhio poco provveduto, nella diversità della versificazione, anche se la rapidità sottesa dell’eloquio poetico lascia subito presagire l’urgenza della parola, l’esigenza primaria di colpire il bersaglio ben oltre la continuità del canto a gola spiegata. Lo scenario del mondo esige segnali rapidi e folgorati, e il traslato del linguaggio spezzato, slabbrato e tronco, non permette dilazioni ed equivoci: se un comune denominatore fra i due è reperibile, esso va individuato e segnato dal comune sdegno verso il presente quale si prospetta al nostro sentire, in tutta la sua tragica e traumatica violenza: e se l’uno si ribella rivelandosi alla sottile delicatezza dell’eloquio poetico, l’altro, il giovane, non può che confrontarsi con “la luce promessa” che lenisce e parventemente rimargina la ferita provocata dal malessere e dal disagio. Di qui un esemplare dettato di linguaggio demoniaco e risentito, di continuo spezzato e rifratto, com’è naturale che sia per l’ira a stento contenuta, per la rabbia repressa, a fronte della quale non è sufficiente il lenimento dello specchio lacaniano, perché ira e maledettismo possano recuperare, rintracciare il filo teso della ribellione. E allora, l’impotenza del dire si concretizza nelle risolte spezzature della parola, inadeguata a configurare l’aridità del presente, fondamentale e necessaria – nella poesia di Lerro – per dar voce all’ambito della protesta. Insomma, due modulazioni più che mai valide per recuperare alla parola la sua forza univoca, la sua totalizzante esigenza di essere.

Walter Mauro