Tre modi di toccare un elefante

Tre modi di toccare un elefante

copertina
anno
2006
Argomento
Collana
Categoria
pagine
168
isbn
88-8176-785-6
14,25 €
Titolo
Tre modi di toccare un elefante
Prezzo
15,00 €
ISBN
88-8176-785-6
nota
Introduzione di Filippo La Porta

Questo romanzo si snoda in tre parti che rappresentano la lacerante triplicazione dell’io della protagonista nel suo progredire verso la follia, in un insieme di sensazioni ed esperienze di vita che la donna annota sul suo quaderno di bordo. È la storia di una sofferenza esistenziale e non solo: il nosocomio, le scariche elettriche, ma anche Cuba e i suoi abitanti sono in primo piano.
Scrive Filippo La Porta nell’Introduzione: “Un poema in prosa che si condensa intorno a tre memorabili ritratti femminili, e che scompiglia felicemente i nostri cliché sull’altrove esotico del Caribe”.

Incipit

La fila di elefanti bianchi, grigi, bruni, con il dorso rossiccio, grazie alla luce che filtrava dalla finestra aperta sulla mia curiosità, prometteva un mondo affascinante. Quel branco di pachidermi sulla fòrmica scollata delle mensole garantiva, con la sua ceramica da quattro soldi, una difesa contro la sfortuna…

Mentre esaminavo ogni movimento degli elefanti, ogni zampa sacrificata dai ragazzi, ogni granello di polvere che erodeva la mia felicità, Lala scendeva le scale a due a due, fino al primo gradino, dove incontrava Sergio a metà mattina. Lui portava una giacca molto stretta in vita come ricordo di epoche passate legate al presente, e un fiore appassito all’occhiello, un fiore secco a furia di aspirarne la bellezza e l’ingenuità.
Quando Lala scendeva le scale, “ho fatto il bagno, ho fatto il bagno, oggi ho fatto il bagno…!”, schizzava con la sua canzone le pareti che mi separavano dalla sua felicità, con gocce di un profumo dozzinale usato per la sua intimità, ultime gocce del polline appassito di quel fiore. Lala rappresentava, per un osservatore di otto anni, la grande commedia dell’amore, la lotta della bruttezza contro la bellezza e la fedeltà.
Non sapevo se fosse morta in quel manicomio dove fu internata. Basterebbe chiederlo, ma a chi? Preferisco credere che loro stiano lì, intatti, devoti, sopravvissuti puri al panico provocato dagli occhi di Consuelo; sopravvissuti al suono di quei piccoli aerei che talvolta, di notte, passavano radenti, nonostante i proiettili traccianti verdi e rossi che illuminavano la città buia, nella finzione di una guerra permanente e senza consolazione…
Ogni mattina, Agustín, il padre di Lala, legava il laccio del papillon sopra il pigiama e scendeva alla ricerca del suo pane. “Non quello di tutti –diceva–, non il pane del nucleo familiare”, ma “il suo pane”, che stringeva tra le mani tremanti come se fosse un pesce che cerca di scappare. Nel frattempo, la sua nipote più furba –quella che aveva gli stessi occhi di Consuelo– si spogliava tutte le mattine per prendere il sole sulla terrazza del caseggiato, approfittando dell’unica uscita di Agustín.
Era allora che compariva nel caseggiato L. Tolmo canticchiando qualche opera famosa, sconosciuta dal resto degli inquilini e dalla famiglia Nodal. Portava sotto il braccio una pila di vecchi libri per leggere alla ragazza storie in latino e in inglese, storie che lei non ascoltava né capiva e di cui non aveva bisogno. Perché, in ginocchio davanti al Re, nuda e indifferente fino all’insolazione, “fino alla bruciatura che scotta”, come diceva sua zia Lala con grande precisione, Alina stava sotto “un sole e un cielo azzurro fino alla sazietà”, e i bambini delle terrazze vicine, impegnati su quello sfondo azzurro, le lanciavano pietre da diverse altezze.
La “nipote nuda” –così chiamavano la ragazza– si metteva un fazzoletto di seta verde per proteggersi, più che dalle pietre o dagli sguardi indiscreti dei bambini, dalle parole del libro che L. Tolmo era solito leggere, alternando la cadenza della sua vecchia voce da baritono agli sguardi insistenti su di lei. E le parole, nonostante lo sforzo che Luis faceva per rimanere concentrato, gli scappavano “suo malgrado” – diceva, con un gesto di impotenza che indicava con entrambe le mani il luogo in cui la già famosa nipote catturava sotto il suo fazzoletto verde, “di sicuro come nessun altro” –e come sospettavano anche i vicini– tutto il calore, la luce e la polvere del vicinato (e del mondo intero, pensava L. Tolmo).
Io giocavo al fortino perché lì avevo una bandiera e un buco per la mia libertà. Mi affascinavano le piume colorate degli indiani sulla struttura rugosa di una capanna improvvisata tra i quattro gradini del pianerottolo della scala. “Gioco da maschi”, diceva mia madre, indicando con amarezza quel posto dove io mi accampavo.
Le mie bambole dormivano (prima di essere decapitate) nel cesto dei giocattoli. Bambole “bionde, italiane, così fragili di fronte all’abbandono a cui le sottoponevo”, si lamentava Lala quando mi soffermavo troppo a lungo a preparare “una qualche coreografia intorno al falò dei miei sogni”.
“Povera immaginazione!” – sospirava Lala. Lei sì che sapeva, allora più di me, di che si trattava. Perché nemmeno sospettava il pericolo che correva stando dentro quella più ampia scenografia che ci assediava. Era il destino di tutti i vicini, e il mio, quello della piccola spia che a poco a poco stavo diventando.

Ma, nonostante tutto, ero una spia inoffensiva, e ho potuto percepire, dal mio nascondiglio sul pianerottolo della scala, come la famiglia accanto cominciasse lentamente a infrangersi sul barrito dei suoi elefanti di porcellana.