Viaggio a Finibusterrae

Viaggio a Finibusterrae

sottotitolo
Il Salento fra passioni e confini
copertina
anno
2014
Collana
Categoria
pagine
120
isbn
978-88-6266-574-2

Nuova edizione ampliata

Lecce. Città dove la pietra lievita, si solleva verso il cielo quasi svaporasse, si fa modulazione di decorazioni, immagine armoniosa di volute, slittamento ondoso delle prospettive, nuvolaglia di decorazioni.
Poi Otranto. Il silenzio che allaga le strade, si rapprende nell’aria, ammutolisce il vociare, si attacca alla pelle come lo scirocco, si apposta in ogni angolo come un’ombra, acquieta i tumulti del pensiero, è velo sugli affanni di ogni giorno.
Poi Castro. Che ha tempeste luminose quando albeggia, bonacce quando comincia ad imbrunire, gorghi di luce alla metà del giorno: mulinelli, vortici che accerchiano la mente, che disorientano, fanno vacillare.
Poi la malinconia di Santa Cesarea; e diventa tristezza, se non si ha un amore.
Poi Gallipoli, le sue chiese. Una dopo l’altra. Una accanto all’altra. Come per fermare il vento, o almeno disorientarlo, ingannarlo, per farlo sfrenare lungo i bastioni, fino a sfiancarsi, a dissolversi, senza entrare rapinoso nei vichi, senza rovesciarsi sul mare.
Poi i poeti, le piazze, i fari.

Un viaggio suggestivo e poetico, un reportage letterario e culturale dei luoghi più belli del Salento che sono luoghi dell’anima, paesaggi interiori e anche chiese, vicoletti, storie di genti.

INCIPIT

Non bisogna esserci nato in questi luoghi. Non bisogna sentire il mito nell’aria che respiri. Non bisogna avere i destini impastati con la storia. Non bisogna avere rimpianti, né memoria, né passioni vecchie e nuove.
Non bisogna conoscere strade e direzioni, né sapersi muovere tra i vichi ad occhi chiusi, né avere occhi abituati al vorticare della luce, né un pensiero capace di confrontarsi con le ombre, con le visioni che partorisce la controra.
Non bisogna aver appreso a sentirsi parte d’infinito guardando il mare dallo strapiombo di una torre, né pensare a se stesso come a una delle innumerevoli voci di un racconto, di uno di quei racconti che frastornano la luna.
Bisogna essere passante forestiero per capire questi luoghi, per riuscire a riconoscere la mistura di falso e di vero, a discernere la realtà dall’invenzione, la concretezza dall’apparenza, per sprofondarci dentro e scandagliare il senso che si nasconde sotto una pietra, nel vuoto superbo di un rosone, nelle leggende custodite dalle grotte, in un linguaggio che strascica le parole a cantilena.
Non bisogna aver udito i canti dei carrettieri, né rosari bisbigliati nella penombra delle chiese, non bisogna aver visto le anatre stramazzare sulle scogliere, né cavalli e uomini schiumare dentro i solchi, né tarantate che cercano un sollievo all’ossessione nello specchio d’acqua di un pozzo di scorpioni.
Non bisogna tutto questo, molto altro che questo, per capire Finibusterrae.

Forse solo chi viene da lontano può capire.
Chi viene da lontano non ha certo la storia dei turchi dentro la sua vita.
Quella storia. Quella ripetizione senza fine della favola d’Idrusa.
Non si può raccontare Otranto. Otranto è il racconto.
Non si può guidare dentro Otranto un passo forestiero.
Otranto è un’eterna fuga. È un eterno ritorno. È l’incipit e l’explicit di ogni racconto.
Non si può raccontare Otranto.
Forse si potrebbe dire di San Nicola di Càsole, del cenobio e della biblioteca, dei suoi codici aperti sul Mediterraneo, della sintesi che fu del pensiero di Oriente e di Occidente.
Si potrebbe dire dei suoi poeti e dei suoi amanuensi, di Nettario, Giovanni Grasso, Giorgio Cartofilace.
Ma di Otranto non si può raccontare.
Otranto cova dentro sé memoria e smemoranza.
Ogni istante distrugge qualcosa che le appartiene e nello stesso istante la ricrea; ha sempre preteso di trasformarsi in leggenda, e lo ha fatto allungando a dismisura la distanza che separa il suo presente dal passato, amplificando le sue storie e, al tempo stesso, rinchiudendole nella cornice della vicenda dei turchi.
Così le sue tante storie, le sue tante culture, sono state risucchiate da quel fatto.
Così sembra che nulla ci sia stato prima e nulla dopo il mese di agosto dell’anno del Signore 1480.
Così di Otranto si può raccontare soltanto quell’agosto che da cinquecento anni raccontiamo.
Altro, dunque, non c’è da raccontare.