Anna Segre, Monologhi di poi

21-06-2005

La folla parlante nei versi di Anna Segre, di Fabio Sebastiani


Se l’epitaffio è un genere antico quanto il mondo, i “monologhi di poi” possono essere considerati una originale variazione sul tema. Anna Segre con questa agile e affascinante raccolta di Monologhi di poi, appunto, rappresenta un mondo in cui il sottile legame con i nostri morti non ha più quel brutto registro al passato remoto ma il segno lieve e forte al tempo stesso di un racconto e basta.
E così tra i racconti di una vita “andata come è andata” si riscopre la morte terrena con i suoi drammi e la sua forza. C’è il barbone incallito, autore di se stesso, che si chiede il senso di quell’andare tanto di fretta di quelli che barboni non sono. C’è la donna “dalla quinta misura”, colpita dall’Alzheimer. C’è la donna nel 1950, “troppo vecchia per saltare sul carro della rivoluzione sessuale”, accompagnata al funerale “con un unico grande sospiro”.
Una galleria di personaggi che ci sorprende per la varietà e la ricchezza delle storie. Ci sorprende per il tono assolutamente neutro e per niente ammonitore, che è forse la cosa difficile da digerire, oltre agli affetti troncati, di una vita che fu.
Ai vivi non rimane un monito o un insegnamento, misurato sul grado di “sacralizzazione” di questa o quella esistenza, ma il fascino di una presenza narrante che sa indicare l’unica soluzione possibile: il guizzo sferzante dell’ironia e del distacco.
“Stramazzai sul piatto con la bocca ancora piena di melanzane alla parmigiana”, si legge nel monologo Mangiare è importante. Oppure, in quello del ricordaro trapassato dopo sei mesi dalla cessata attività di venditore: “Dicono che fu arresto cardiaco. Non è vero! Io morii di noia”.
Alla fine, dopo aver letto sessanta storie ci si convince che ironia e distacco, appunto, su uno dei pochissimi interrogativi che l’umanità ancora non è riuscita a risolvere, la morte, sono l’unico atteggiamento “comunicante”. La capacità di Anna Segre non è solo quella di elaborare una sintesi efficace di ogni profilo ma quella di ingegnarsi fino al punto di fissare esattamente “quella” storia, cercandone tra i significati possibili ciò che riesce a proiettarlo verso di noi. I personaggi non sono presentati con i loro nomi e ogni monologo porta il titolo ripreso dall’ “attacco” del verso. Eppure dopo averli letti tutti si ha la sensazione di essere circondati da una folla di gente. È quell’effetto-piazza che cancella la malinconia e rende tutto e tutti cittadini del mondo. La vita oltre la morte non è altro che la vita parlante, che racconta di sé attraverso il suo originalissimo percorso. Come il nostro Dna, questo percorso disegna una individualità che la Segre è pronta a raccogliere con un atto d’amore e a donarci con l’invito a farci ciò che più ci piace.
La folla parlante di Anna Segre ci racconta alcune storie di vita della comunità ebraica di Roma. E forse non poteva nascere in una latro contesto questa raccolta di monologhi “di poi”.
“Non voglio scomodare la cultura ebraica”, risponde Erri De Luca, scrittore, profondo conoscitore della religione e della cultura ebraica, interpellato da “Liberazione”. “Monologhi di poi rappresenta  delle belle sintesi di vita, racconti condensati di elementi fondamentali di una vita intera”. “Ciò che uno ha vissuto e sente di dover sistemare. –aggiunge- Una botta di conti anche non definitiva”, la chiama De Luca. “La morte è al di là. È semplicemente una stazione da cui ricostruire una vita”.
C’è uno specifico della cultura ebraica sulla morte rispetto a quella cristiana? Quelli che compaiono in Monologhi di poi “non sono personaggi né tristi né luttuosi”. “Certo, tecnicamente, a partire dall’inumazione, quella ebraica si svolge dentro un lenzuolo e non dentro una cassetta di legno. E quindi si parte più lieti”. “Però –sottolinea De Luca- sia nella cultura ebraica che in quella cristiana c’è la ricostruzione di una vita in una vita futura ultraterrena”. In Monologhi di poi, infine, “non c’è l’ansia di ritornare”.