Antonio Debenedetti, Un piccolo grande Novecento

23-11-2005

Antonio Debenedetti, un solido narratore obbligato a un po' di voyeurismo, di Alfonso Berardinelli


Prima di scrivere, i critici dovrebbero saper parlare di letteratura. Ben pochi lo fanno o lo sanno fare. Ben pochi ne hanno voglia, ma un individuo che non parla di scrittori, di libri, di letture remote e recenti, perché dovrebbero mettersi a produrre articoli, saggi e volumi di critica letteraria? Staccata dalla conversazione e dall’improvvisazione orale, la critica diventa, come è diventata, un lavoro da professionisti che non sanno più quello che fanno, né perché lo fanno.
 Figlio di una grande critico, Antonio Debenedetti ha sempre voluto tenersi lontano dalla critica. Non nel senso che la ignori, tutt’altro. Con insistenza e passione, legge e rilegge quei critici che possono servire alla sua attività di scrittore. Della critica gli serve il dialogo fra intelligenza e invenzione. Gli serve la familiarità non solo con i libri, ma con chi li ha scritti, con chi ne ha avuto tanto bisogno da farne una ragione di vita. Perciò si potrebbe dire che Antonio Debenedetti è un “conoscitore” più che un critico, quando la maggior parte di critici sembrano non avere, della letteratura di cui scrivono, neppure una conoscenza sufficiente.
Qualche decennio fa, Edoardo Sanguineti definì “racconti critici” i saggi di Giacomo Debenedetti. Ora i racconti veri e propri scritti da Antonio mostrano di avere a loro volta un forte e percepibile presupposto critico: nascono nel punto in cui l’intelligenza interpretativa si arrende e per capire qualcosa o qualcuno bisogna assolutamente raccontare la sua storia. I teorici della letteratura osservano che una parte considerevole della comune produzione linguistica può essere considerata racconto, prende naturalmente la forma di racconto. È quello che succede con Antonio Debenedetti: fra il conversatore critico e l’autore di racconti si stabilisce una spontanea continuità e osmosi. È il bello di questo libro-conversazione che lo scrittore ha costruito con il giovane Paolo di Paolo, “Un piccolo grande Novecento” (Manni editore, pp. 174, euro 14), nel quale incontriamo decine di artisti: al primo posto Fellini e Moravia, seguiti da Bertolucci, Caproni, Savinio, Gadda, Bassani, Carlo Levi, Guttuso, La Capria, Palazzeschi e molti altri.
Mi è bastato leggere le prime righe per capire che non mi trovavo affatto di fronte a un libro minore e secondario. I microracconti, che sono ricordi di incontri e sono ritratti critici in poche righe, mostrano subito lo speciale talento critico-narrativo dell’autore: “Roma, corso d’Italia, all’angolo con via Po, un pomeriggio del settembre 1990 (pochi giorni prima della morte di Alberto Moravia). Fu là che salutai Federico Fellini, credendo di rivederlo presto, come era accaduto altre volte negli ultimi due o forse tre anni. Non l’avrei più incontrato, invece. Fellini aveva sempre molti impegni e questi impegni, a causa del suo vivere più grandi della realtà (come erano sempre più grandi delle realtà le sue bugie) diventavano una diga insormontabile. E come si può scalare una diga di nuvole? Fellini, poi, era un maestro che credeva di essere, e in parte era davvero, un seduttore. I veri maestri come i veri seduttori hanno in comune un loro modo tutto particolare di essere inavvicinabili”.
Siamo senza dubbio proprio lì, davanti a un Fellini che presto sparirà. Ma da questo incipit di racconto Antonio Debenedetti fa nascere una teoria sintetica e tascabile di che cosa sono un maestro, un seduttore e un dandy.
Dalla conversazione che è già racconto emerge la critica come racconto, una tipologia estetica e psico-morale: “I veri maestri, come gli autentici seduttori, ti lasciano credere che quell’incontro con loro sia solo l’inizio e che saranno sempre là ad aspettarti […]. L’attesa, la delusione, la speranza diventano la parte più eccitante del rapporto con questi araldi del destino. Scopri, facendo anticamera in compagnia di una emozionante e narcisistica idea di te stesso, che cosa ti separa dall’essere come loro […]. Sì, lo vedevi, tornavi a vederlo, ti cercava e poi non lo vedevi più […] Credo però che ci sia una differenza sostanziale tra un dandy e un maestro. Il maestro, quando si sottrae, quando sfugge, lascia in noi il germe di un dialettica creativa […] La distanza da lui ci obbliga a degli interrogativi, a delle riflessioni […] La sparizione del dandy (perché i dandy tendono a presentarsi come apparizione e quindi a dissolversi) lascia invece solo un senso di delusione, di frustrazione in chi l’ha avvicinato […] il dandy ha un’idea quasi mistica della leggerezza come sottrazione del superfluo dall’economia del quotidiano (…) un’agilità che nasce da una ginnastica del pensiero allenato alla rinuncia. Rinuncia ai luoghi comuni del desiderio, del comportamento, del cosiddetto vivere sociale […] Perché il dandy si conduce come se apparisse (non giungesse) nei luoghi dove lo si incontra. Dopodiché fa ritorno o immagina di far ritorno nel “nessun luogo” da cui è partito. La patria del dandy è il nessun luogo, una patria nata dal rifiuto di ogni patria.”
È un ritratto straordinariamente acuto dell’artista come personaggio, come eroe e asceta della sterilità e della fuga. Ma in questo caso le regole dell’arte diventano lo stigma di una vita che non riesce a trovare un accordo con il mondo e quindi non può che prendere la forma di una continua fuga dai luoghi (comuni) nei quali si incontra la vita di tutti. Nel dandy la sola patria e dimora abitabile è la forma, che può essere perfetta solo svuotandosi di ogni contenuto: costituendosi, anzi, come assenza di contenuto.
Antonio Debenedetti oppone il dandy al maestro. Ma leggendo questa descrizione si può pensare anche al narratore. Chi vuole raccontare la via degli altri può essere un dandy? Per chi la racconta, la vita degli altri deve sembrare misteriosa e semplice, impenetrabile, infinitamente attraente e irraggiungibile. Perché altrimenti raccontarla?
In questo senso, anche in quel voyeur che è il narratore deve esserci qualcosa del dandy: per esempio la difficoltà o impossibilità di trovare dimora stabile in un luogo determinato della vita sociale. Per poter entrare nella vita degli altri bisogna uscire della propria: o forse non averne una, non coincidere mai con essa.
Solo che per il narratore questo vuoto deve riuscire a riempirsi. Non può diventare forma restando solo forma, perché in questo caso la forma sarebbe semplicemente il surrogato di una vita che non c’è: la vita di un autore che non è neppure un autore, pur non potendo essere, nello stesso tempo, nient’altro.
Non so se Antonio Debenedetti pensasse a queste cose: e quindi a se stesso come narratore. Ma nel dandy c’è qualcosa che non lo convince. Pochi artisti sono stati interamente dei dandy, pur essendoci un dandy in ogni artista. Inoltre fra i narratori i dandy sono stati ben pochi. Un dandy era Tommaso Landolfi. Ma più che un narratore, Landolfi era un poeta della prosa narrativa, che ha lavorato “come se” raccontasse, ma perfezionando la propria sterilità. (Le storie che racconta sono incubi o fantasticherie della sterilità).
Un narratore è costretto ad essere il contrario di un dandy perché, a differenza di un poeta, deve saper uscire da se stesso e dal proprio narcisismo, deve sapersi mettere al servizio della “realtà”, di forme di vita che non gli appartengono e che proprio perciò lo attirano.
Con queste considerazioni mi sono fermato alle prime pagine del libro di Antonio Debenedetti. Ma l’incontro con Fellini, che dovrebbe essere un maestro ed è piuttosto un dandy, mostra subito la qualità di queste conversazioni critiche di uno scrittore. Viene toccato il punto dolente del rapporto fra arte e vita. Fellini è stato un vero narratore nei suoi primi film (il suo capolavoro forse è “il bidone”). Ma poi si è gradualmente e sempre più coerentemente trasformato in un poeta del cinema. È diventato il prigioniero delle proprie favole. Troppo colore, troppa musica. Una comicità sentimentale. Un sentimentalismo comico. Un vero narratore di solito ama un po’ meno il proprio inconscio. Più che mettere in scena la poesia dello stupore, un narratore usa lo stupore come un operaio usa martello e chiodi.