Antonio Errico, Finibusterrae

06-08-2007

Passione Salento, di Claudia Presicce

Il fatto che Viaggio a Finibusterrae sia stato scritto da un contemplatore, visionario e filosofo come Antonio Errico, fa già intuire qualcosa sui concetti espressi nel libro. Lui, frequentatore di un’idea poetica del mondo, sospeso tra una scrittura onirica, evocatrice di una dimensione per pochi, e un legame con radici ben salde alla nuda terra rossa del suo Salento, ha voluto in questo testo fermare le sue riflessioni su dove sta andando questa terra, su dove siamo e chi siamo diventati veramente.
Il Salento tra passioni e confini è il sottotitolo di questa ultima pubblicazione dello scrittore salentino prestato all’insegnamento, edita da Manni, in cui spazia tra riflessioni e descrizioni, nella penisola sospesa tra i due mari, dai suoi fari al suo barocco, dalle chiese che guardano il mare ai suoi pensatori, parla di Lecce e del senso di questa città oggi, al di là delle sue apparenze e facciate, e poi di Otranto, Castro e Santa Cesarea: «la prima è il simbolo del silenzio, l’altra è la luce e Santa Cesarea la malinconia», dice. Lui definisce questo libro «un saggio narrato, una narrazione registica».
«È un viaggio ideale verso Finibusterrae –spiega Errico– che pone delle domande a partire dal tentativo di capire quanto questa parola e questa condizione dell’anima incidano sulla nostra identità, quanto e se noi ci sentiamo ancora uomini e donne di Finibusterrae. Cioè, se viviamo questa condizione di confine, di finitudine e di inizio perché dove finisce la terra comincia il mare che è un’altra via…».
Nel libro analizza anche la condizione degli scrittori in questo lembo di Sud.
«Sì, e la sospensione dello spazio del Ponte del Ciolo per me rappresenta una condizione della scrittura dell’inizio di terzo millennio. Una condizione di incertezza, di ricerca, con un tentativo di scrutare l’orizzonte, di capire i segni che arrivano da lontano e quelli che abbiamo vicino e che provengono dalla storia».
Ma quali caratteristiche culturali racconta il Salento di oggi?
«La ricerca di situazioni nuove, si vede in tutte le forme di espressione dell’arte, dal teatro alla letteratura fino alla ricerca musicale. È una penisola culturale che guarda da una parte all’Europa e dall’altra al Mediterraneo con una attenzione fortissima verso tutte le forme del nuovo. Ma il suo vizio antico però resta, non lo chiamerei isolamento o solitudine. Ma “solitarietà”, perché noi siamo ancora e continueremo ad essere fortemente individualisti. Questo in una situazione di confine, come diceva Bodini di “periferia infinita” diventa penalizzante. I nostri difetti forse coincidono con le nostre stesse virtù».
In realtà infatti è forse l’isolamento che ci ha permesso di rimanere più genuini.
«Siamo molto fatalisti, questo per la nostra storia. Da queste parti sono passati un po’ tutti, saraceni, arabi, normanni, messapi… Tutto quello che può accadere dunque già lo conosciamo e per questo siamo fatalisti. Non so però se tutto questo ci abbia fatto perdere i treni della storia. Per esempio, secondo me, Lecce ha saputo espandersi, ma non ha saputo crescere. Non è cresciuta, è rimasta legata ad una sua idea storica e mitologica. Noi pensiamo di venire dal mito, Idomeneo, quindi siamo i migliori. Non so quanto questa idea in realtà abbia inciso invece negativamente sullo sviluppo progettuale della città».
Dove le possibilità di crescere? Se questa terra culturalmente è fervida, se ha sete di novità e voglia di fare, quale è la forma espressiva che più promette e sulla quale scommettere? Una commistione tra teatro e letteratura?
«Entrambe hanno degli operatori e delle linee comuni. Dovrebbero trovare forme di collaborazione e integrazione costante e sistematica. Potrebbe essere questa la cifra che contraddistingua l’identità culturale salentina in una formula di originalità. Se ci guardiamo intorno le persone che fanno ricerca teatrale seria provengono dalla letteratura e il teatro è stato un palcoscenico diverso, la ricerca di una formula più popolare. Perché da noi ancora si pensa ad una letteratura se non aristocratica, quanto meno elitaria. Siamo molto lontani dall’idea di una letteratura come mercato e siamo vicini all’dea della letteratura come ricerca».
La letteratura salentina è stata sperimentale…
«Credo non sia un caso l’essere figli di due personaggi come Vittorio Bodini e Vittorio Pagano, estremamente folli nel senso più bello del termine, due dissacratori innamorati di questa terra anche se di un amore che comprende anche il rifiuto. “Qui non vorrei morire dove vivere mi tocca”, diceva Bodini come a dire che stare qui era solo il suo destino. Pagano innamorato della sua Lecce madre, ne rifiuta i suoi luoghi comuni. I poeti non hanno mai amato Lecce, perché Lecce non è mai riuscita a farsi amare da loro, li ha circuiti, li ha blanditi, ma mai considerati nella loro significatività culturale. Così come tutti gli artisti di calibro fuori dai contesti istituzionali che oggi hanno celebrazioni postume nei luoghi delle istituzioni. E non è giusto, pensiamo a Edoardo De Candia: oggi per le istituzioni da morto dovrebbe restare l’ubriacone, come è stato sempre considerato, non il grande artista che è stato da vivo e che gli è mai stato riconosciuto. Pagano è stato uno dei più grandi poeti a livello europeo, un diversificatore che ha fatto sua tutta la lezione francese dei poeti maledetti che ha tradotto, ma qui ancora non lo abbiamo capito».
E poi ancora nel libro si parla di barocco leccese, da Santa Croce fino alla chiesa del Crocifisso di Galatone: Errico si chiede «che cosa può dire il nostro barocco in questo nuovo millennio a gente che viene da paesi lontani e a cui non appartengono questi simboli del sacro o dell’appartenenza?».
Probabilmente potrà raccontare meglio delle nostre parole le forme interiori di un popolo che barocco è rimasto dentro l’anima.