Antonio Errico, Viaggio a Finibusterrae

09-01-2008

09/01/2008 - Paese Nuovo
Il Salento e la sua utopia,di Eliana Forcignanò

 
Quale sia questo lato segreto è dato di saperlo solo a chi decide di avventurarsi nella meravigliosa Finibusterrae, dove non esiste un punto di arrivo né di partenza. Emblema di questa situazione utopica– come la definisce Giovanni Invitto – è Castro, poiché a Castro “non c’è partenza né ritorno. Si sale e si scende. Si risale. Si scende ancora. Si ristà davanti al mare: metafora dell’incognita del vivere”.
Un altro libro sul territorio salentino? Sì, si può se a scriverlo è proprio Errico che ci ha donato con la sua penna momenti di puro incanto, da Angeli irregolari pubblicato nel 2002 al bellissimo lavoro L’ultima caccia di Federico Re edito nel 2005. Ora, con Viaggio a Finibusterrae. Il Salento fra passioni e confini giunge a noi una summa della passione che unisce l’autore alla sua terra d’origine, una passione che, come ogni autentica passione, non è esente da critica, dalla dichiarazione che si poteva fare e si può far molto per Finibusterrae, per le persone che vi hanno vissuto e che ancora vi abitano, per la memoria dei poeti, dei letterati, degli intellettuali nati qui e troppo spesso dimenticati dai loro stessi conterranei.
L’oblio – scrive Antonio Errico – non è sempre cattiva cosa: a volte, si può obliare se stessi guardando il mare di Santa Cesarea e pensando a quel tempo mai venuto in cui la principessa Shaharazad raccontava, filava la conocchia e raccontava, scrutando dal suo balcone quella vela che doveva tornare e non ritornò più. Non si possono né si devono tuttavia obliare individui come Luigi Corvaglia, Antonio Verri, Salvatore Toma, Rina Durante che, lottando e scrivendo, aggregando giovani spiriti intorno a loro e scoprendo talenti, hanno fatto la Storia di Finibusterrae. No, non bisogna dimenticare queste persone e, fortunato, chi, come Antonio Errico, le ha conosciute direttamente, ha fatto loro domande, ottenendo ora risposte, ora silenzi che sono tanto più eloquenti delle parole. “Anime accese di poesia, luci senza fonte e senza direzione” chiama l’autore questi personaggi e ha ragione: basti pensare a Rina Durante, quella donna piccola di statura, riccioluta, capace di svegliarsi ogni notte con l’assillo che altri, al suo posto, si accingessero a scrivere il capolavoro, invece – ricorda Antonio Errico – il capolavoro lo scrisse lei, La Malapianta, in venti giorni, mentre sua madre moriva in ospedale. O un uomo dello spessore morale di Vittore Fiore: tutta la vita trascorsa a credere in alcune certezze che sembravano “fortezze inviolabili e che a un certo punto lo hanno tradito lasciandogli solo una trama di affetti e memorie”. Il tradimento, la disillusione erano frequenti a Finibusterrae, ma non era la terra a illudere, non erano i contadini, gente semplice e spesso diffidente verso gli uomini di lettere, non era l’architettura barocca, così affascinante e densa di fantastiche irregolarità. Erano la Storia, la Politica – entità macroscopiche e oscure – a ingannare chi ancora vi credeva, chi sperava nella redenzione fino a restarne ogni volta deluso. In alto loco non si curavano di Finibusterrae, dei suoi poeti, dei suoi intellettuali: Rina Durante raccontava a Giovanni Invitto come il Salento l’avesse più volte umiliata e lasciata sola nei suoi progetti di riscatto. Ancora una volta, non il Salento della povera gente, ma quello delle istituzioni cui mancava sempre il denaro per supportare l’ingegno e la creatività. A questo proposito non è da trascurare l’intervento di Giovanni Pellegrino, presidente della Provincia di Lecce, alla presentazione del libro organizzato lo scorso lunedì nell’Auditorium del Museo “Sigismondo Castromediano”. Al tavolo della discussione anche Giovanni Invitto, docente dell’Università del Salento e Mario Pastore, dirigente dell’Ufficio Scuola della Provincia.
“Rispetto al passato – ha detto il presidente – ho ragione di pensare che la situazione sia cambiata: oggi, noi c’impegniamo in ogni modo per venire incontro alle esigenze della creatività e della cultura. Proprio questa mattina rispondevo a una lettera del professor Donato Valli che mi chiedeva il consenso per avviare un progetto di ricerca sui poeti del Salento finalizzato alle scuole medie superiori. È giusto e opportuno che i ragazzi conoscano il patrimonio letterario salentino e, per questo, ci affidiamo a esperti come il professor Valli e la sua assistente, professoressa Occhinegro”. Poi il presidente Pellegrino propone di distribuire il libro di Antonio Errico a chi arriva in visita dalle nostre parti: “Questo libro è una lettera d’amore al Salento. L’autore ha voluto scrivere in una nota che le novanta pagine contenute nel testo sono il risultato di un insieme di articoli apparsi in diverse raccolte e riviste, ma io ritengo che il libro fosse già tutto intero nella mente di Errico e che questi ne abbia tratto, su richiesta degli amici, stralci da pubblicare separatamente”. Antonio Errico annuisce: è andata davvero così, ma lui è un uomo riservato, preferisce scrivere piuttosto che parlare. “Viaggio a Finibusterrae – continua il presidente della Provincia – è un romanzo sul nostro territorio, su uomini e donne che lo hanno abitato nel tempo e hanno contribuito a renderlo così come noi oggi lo conosciamo. È straordinaria la capacità di Errico di tramutare i luoghi fisici che rappresentano la realtà fenomenica in luoghi dell’anima i quali, attraverso il medium della scrittura, svelano il loro lato segreto”.
Non si può scegliere il luogo in cui si nasce, forse, si può scegliere quello in cui si vivrà una volta diventati adulti – si diventa mai adulti o si resta perennemente bambini sulla soglia dello stupore? –, ma quante volte rimani vittima della malia dei luoghi che t’induce a non partire, a guardare il mare con nostalgia, rabbia, rimorso. Sei adirato con te stesso perché non riesci a prendere il largo – la terra nella quale sei nato non ti offre pane né gratificazioni, ma tu continui ad abitarla nella speranza, ogni giorno più fievole, che qualcosa cambi –, però non riesci a liberarti dalle catene dolci della “saudade” che ti tengono avvinto a Finibusterrae come lo chiamava Luigi Corvaglia – senza dittongo finale – e come lo chiama Antonio Errico, narratore e poeta, maestro della parola capace di forgiare melodie costruite sui ritmi dell’anima.

01/02/2008 - Il tacco d'Italia
Perdersi a Finibusterrae, di Antonio Lupo

Nel suo ultimo libro Antonio Errico svela le bellezze paesaggistiche, le caratteristiche antropologiche e le connotazioni poetiche di Finibusterrae.
Terra dei contrasti e dell’ossimoro, come la scrittura dell’autore. Una lettura certamente utile a chi vuole scoprire nella sua vera essenza “la penisola della penisola”, a chi ci ritorna, a chi si riconosce.
 
Il Salento dei luoghi del mito. Dall’esuberante barocco di Lecce al silenzio di Otranto, dalla luce di Castro alla malinconica quiete di Santa Cesarea, fino al ponte Ciolo e Santa Maria di Leuca e Gallipoli, nella loro immota e cangiante mutevolezza, sospesi come sono “tra la certezza della terraferma e il mare, metafora dell’incognita del vivere, dell’infinito”.
In un paesaggio “che si scontorna”, dove il tempo è “un prolungato presagio” che rimescola memoria e speranza, essenziale rimane l’idea del dialogo con la terra (Verri) insieme al senso di precarietà e di finitudine che rivive nella scrittura.
Tutti i poeti del Salento, nella “penisola della penisola” – ci ricorda l’autore – hanno raccontato la loro nostalgia, il loro naufragio e il loro smarrimento. “Sono convinto che questa penisola sia un’invenzione della scrittura poetica. Corvaglia, Bodini, Pagano, Corti, Verri, Manno, hanno dato a questa terra fisionomie e voci particolarissime, che si propagano. Quando noi pensiamo il Salento, lo pensiamo con le loro immagini, con le loro parole. Aggiungerei poi De Donno, Moro, qualche altro”.
Così, attraverso una raccolta di dieci saggi, Antonio Errico porta il lettore ad affondare nell’humus di questa terra, creando uno straordinario senso di appartenenza.
Le situazioni, i versi e le immagini, sorprendenti e ritrovate, si susseguono, catturando la partecipazione emotiva: l’inconfondibile atmosfera delle piazze, le suggestioni che comunicano i fari dei due mari, le testimonianze della pietra (“voci che dicono di una memoria”), le ombre e le penombre, come quelle delle case e delle chiese di Gallipoli, che si riflettono allungandosi sull’acqua.
Vivere ai confini, in un’affascinante terra di contrasti e di slittamenti che si integrano e si includono uno nell’altro (l’ossimoro), compenetrandosi, in un coinvolgimento sensoriale (visivo, olfattivo, ecc.) che è un crescendo di intensità (climax): questo è Finibusterrae mano a mano che la si scopre. Una dimensione esplorata nelle sue metafore che si riflette e riecheggia nello stile e nella scrittura personale dell’autore, in un linguaggio carico di valenze simboliche, che sprofonda nel vortice delle suggestioni.
Scritto con intensità poetica il libro di Antonio rivela quindi un mosaico di tanti dettagli diversi, insieme alle connotazioni culturali e antropologiche più autentiche, delineando un percorso dell’immaginario collettivo che va oltre i luoghi di confine.
Ne deriva un insieme di poesie che scandaglia le potenzialità creative ed espressive della parola, appagante e vorticosa, per raccontare di un luogo dell’anima che reinvesta continuamente se stesso, dislocando l’immaginazione e la storia.
Com’è nata l’idea di questo libro?
“In realtà questi saggi raccontati sono stati pensati in modo unitario e scritti in modo continuativo. Sentivo il bisogno, in questa fase, di confrontarmi con le idee di alcuni luoghi. Proprio le idee, i concetti, i modi che abbiamo di pensare alcuni luoghi simbolici, che appartengono al nostro immaginario individuale e collettivo. Penso che sia un viaggio nel nostro sentimento di appartenenza, nella nostra radice che stringe concretezza e fantasia”.
Quale l’autenticità, quali i limiti di questo lembo di terra, in un mondo globalizzato?
“Non so che cosa sia ancora rimasto fuori dalla globalizzazione e se è rimasto qualcosa non so per quanto tempo resisterà.
Credo che il nostro comportamento non dovrebbe essere di tipo oppositivo, ma integrante: voglio dire che dovremmo cercare di rapportare alcune nostre caratteristiche connotazioni culturali a quelli che sono gli elementi di un contesto culturale più ampio e articolato. In questo libro, per esempio, ho cercato di interrogarmi sul senso che possano avere le forme del barocco per i tanti extracomunitari che vivono a Lecce. Il viaggio, a volte, è stato fatto con gli occhi del forestiero, che forse possono vedere e capire meglio perché sono occhi nuovi”.
Come per i tuoi precedenti lavori, scritti sull’onda dell’affabulazione (Favolerie, 1996; Angeli regolari, 2002; L’ultima caccia di Federico Re, 2004;), rimane un forte senso di assenza.
Che cosa ne pensi?
“Hai perfettamente ragione. Sono convinto che ogni racconto nasca dalle cose che mancano perché si ha bisogno di trattenere la loro memoria. Si scrive per non dimenticare e, forse, anche per non dimenticarsi. Il racconto è uno strumento della memoria. Ripeto: è come dici tu. La scrittura è un tentativo di alzare un muro contro la smemoranza, di riannodare fili, di ritrovare tutti coloro che ti appartengono”.

 29/04/2008 - Paese Nuovo
Attenti al faro, di Elisabetta Liguori

Venite a Finibusterrae, se potete.
Venite se avete paura del futuro; venite se avete desideri ancora da soddisfare; venite anche se da un pezzo avete smesso di averli, al fine di ritrovarli proprio qui; venite se volete andare altrove; venite se vi serve un varco; venite se siete capaci di sognare; venite anche se avete smesso, per poter ricominciare; venite se conoscete la malinconia e, se non l’avete mai provata, venite ugualmente, per imparare a riconoscerla tra le altre malattie e per metterne un po’ nelle vostre tasche da tirar fuori negli inverni più duri. Venite così come siete, venite come vi trovate, senza neppure cambiarvi d’abito o far valige, ma venite solo se davvero avete un po’ di tempo da dedicare a voi stessi.
Leggo e rileggo da mesi Viaggio a Finibusterrae di Antonio Errico, edizioni Manni:
“ La scrittura abita Finibusterrae. Finibusterrae è la residenza della scrittura. Finibusterrae è l’orizzonte reale che si allontana mentre l’orizzonte disegnato dal racconto si fa più vicino. È condizione dell’illusione, della visione, della metamorfosi e dell’anamorfosi, della conoscenza attraverso l’immaginazione.”
No, questa non è la Lonely Planet! Errico ricostruisce un percorso esistenziale, oltre che estetico, in questo suo libretto scrigno. Il suo è un invito a viaggiare col cuore e con la mente, non solo con le gambe e il portafogli. Un invito ad andare e ad essere. Un invito diretto allo straniero, quanto all’autoctono. Un invito ad approssimarsi al proprio limite. E da sempre tutto questo ha a che fare con gli scrittori. Il pregio di questo reportage dell’anima meridiana è, infatti, aver descritto ciò che è sospeso al confine tra le cose. Tra il noto e l’ignoto. Nulla è più incerto di questa linea di demarcazione, nulla più inaffidabile. Per cogliere a pieno il senso di un confine ci vuole una scrittura borderline che, funambolicamente sospesa tra prosa e poesia, sia capace di continui sconfinamenti, visioni, e si ponga come un faro a vantaggio di chi le si accosta. Di più: una scrittura che di se stessa, del proprio sconfinare, del proprio illuminare, delle proprie necessità sintattiche, si sforzi di ricercare ogni ragione storica. Questa è la scrittura di Antonio Errico.
Il faro è infatti uno dei temi più importanti in questo suo volumetto prezioso. “Memoria della terra che argina l’oblio del mare.” Ecco: il faro inteso come memoria, oltre che come argine. Come preservazione. Il rispetto della memoria dei padri e della terra è sempre stato fondamentale nella poetica di Errico, e qui è inteso anche come chiave d’accesso alla scrittura, come fantasia che il vivere alimenta e che dal quale il vivere trae forza, coerenza, timore, coraggio e moralità. La luce notturna del faro, posto a baluardo sulla costa, in qualche modo è lo stesso confine che si estende, che si spinge oltre, che avverte e s’avverte, che annuncia meraviglia o pericolo. Avvisaglia appariscente. Inizio e fine dello stesso viaggio. Un mito che aspira alla condivisione, all’universalità. La ricostruzione dei luoghi intorno a quella avvisaglia luminosa che Errico opera narrativamente è quindi storica, antropologica, culturale, fantastica, e lascia al lettore straniero, al turista salentino, al migrante occasionale che sia, un senso profondo d’infinito e impegno.
Un piccolo libro che va ben oltre se stesso, che conta ogni singolo passo ed enumera simboli specifici e duraturi. Chi viaggia, infatti, ha un gran bisogno di simboli per capire, di sintesi da diluire alle proprie personali energie. Per questa ragione l’autore avanza per segni. Vediamone alcuni: il silenzio contagioso che sembra aumentare lo spazio a disposizione dell’osservatore; la luce ad onde che annuncia il mare; la malinconia che confonde un luogo con un altro; la pietra che sembra sgretolarsi e morire ogni ora di più; il barocco delle chiese che si contraddice e contraddice il turista e le sue prime impressioni; la città di Lecce che finge ed esagera e vuole solo mostrarsi; le parole amare o catartiche dei poeti che hanno attraversato e attraversano la città; la vertigine dei campanili; le piazze che, a seconda delle ore del giorno, mettono insieme rappresentazioni teatrali differenti. A ciascuno di questi simboli il turista che arriva aggiunge poi se stesso. Questa è la vera accoglienza del sud del sud che Errico canta. Finibusterrae, in quanto linea ultima, non scaccia, ma accoglie e fa proprie le fantasie di chi arriva. Genera trasformazioni reciproche. Si dilata abbracciando. Questa accoglienza generosa coincide con il gesto del narrare. È parola. È logos.
Ecco la verità che Errico ha saputo tirar fuori dalla terra. Logos di terra e mare. Non solo zolle, stradari, stella dei venti, ricordi d’infanzia, ma il respiro universale del pensiero, la sua intrinseca poesia, la sua tragicità filtrata dalla creazione. Grazie ad un’impostazione come questa, per capitoli, passi, tappe e suggestioni, il viaggio di Antonio Errico diventa onirico. Introspettivo. Direi persino epico, perché capace di far confluire ogni diversità, ogni contrasto, in un unico sogno. Un sogno dinamico nel quale ad ogni angolo di strada riemerge la storia (spesso il suo rimorso) per poi essere dimenticata ancora, ancora e poi ancora.