Cosimo Argentina, L'umano sistema fognario

27-11-2014

Il noir è vivo, di Girolamo de Michele

So it seems in the end / Is this what we’re all living for today? (Queen, Is this the word we created?)

A proposito di: Francesco Abate, Un posto anche per me, Einaudi Stile Libero, Torino 2013, 226 pp., € 17.50; Giacomo Cacciatore, La differenza, Meridiano Zero, Bologna 2014, 170 pp., € 12.00; Cosimo Argentina, L’umano sistema fognario, Manni, Lecce 2014, 184 pp., € 17.00
Non finirà mai di stupire, la vitalità del noir: senza bisogno di costruirci sopra una metafisica o una teoretica, basta prendere atto di come, ogni volta che sembrano suonate le sue campane a morto, il noir si rigeneri trovando al proprio interno l’elemento a partire dal quale fiondarsi in avanti – il passato è forse il potenziale elemento di un futuro anteriore?
Così, nel momento in cui il genere sembrava sommerso dal ritorno dello sbirro “buono” – sia come personaggi che come autori –, e le maniglie di una deprecabile pancetta riformista arrotondano il girovita di autori un tempo affilati e taglienti, ecco qui tre libri diversi che ci dicono che il noir è ancora possibile, per la semplice ragione che ha ancora e sempre qualcosa da dirci.

Perché ci piacciono i sociopatici
In un suo aureo libretto di due anni fa sulle serie televisive nel “tardo capitalismo”1, Adam Kotsko ha identificato la figura del sociopatico come chiave di lettura di molte serie televisive. Il sociopatico di Kotsko non è uno psicopatico, non necessariamente è un serial killer – ed anzi, spesso gli si oppone. Kotsko nomina Homer Simpson, Eric Cartman (South Park), Tony Soprano, il gangsters Stringer Bell e il tossico Marlo di The Wire (ma avrebbe potuto aggiungere anche il detective Jimmy McNulty), Don Draper di Mad Men, Dexter, il dr. House; Jason Read aggiungeva all’elenco Walter White: oggi potremmo senz’altro inserirvi Lisbeth Salander, Ryan Hardy (The Following), la coppia di True Detective Rust Cohle e Marty Hart (il secondo dei quali palesemente ispirato a diversi detective interpretati da Al Pacino, con più di una citazione rivelatrice), e la coppia di House of Cards Frank e Claire Underwood, versione tardomoderna degli shakespeareani Riccardo III e Lady Macbeth.
Il sociopatico è incapace di trovare il proprio ruolo all’interno della struttura relazionale e comunicativa del mondo attuale: «Il sociopatico è un individuo che trascende il sociale, che non è vincolato da esso, in nessun modo e che può quindi utilizzare il sociale come un mero strumento». La sua personale visione delle cose «rappresenta un tentativo di sfuggire alla natura inevitabilmente sociale dell’esperienza umana», e reagisce a una situazione di disagio (Awkwardness) nella quale le regole sociali sanno dirci che quello che facciamo è sbagliato, ma non sono capaci di argomentare in modo persuasivo qual è la cosa giusta che dovremmo fare. In un precedente libro, intitolato appunto Awkwardness (John Hunt Publishing, 2010) Kotsko ha sostenuto che la risposta a questa situazione kafkiana potrebbe essere quella di assumere la situazione di disagio, piuttosto che cercare di evitarla: «If the social bond of awkwardness is more intense than our norm-governed social interactions, it also has the potential to be more meaningful and enjoyable» (se il vincolo sociale del disagio è più intenso delle norme che governano le nostre relazioni sociali, allora esso ha la possibilità di essere più desiderabile e significativo). Assumere il disagio come condizione ordinaria ha il costo di sacrificare confort e prevedibilità: ma chi dice che confort e prevedibilità siano sempre desiderabili, dopo tutto?
Il sociopatico, insomma, ci attrae per la sua possibilità di aprire un mondo possibile nel quale, come lui, possiamo scivolare a lato della gabbia di relazioni sociali (mostrandocene al contempo la falsità) nella quale siamo sempre rinchiusi. La sua posizione sociale è alternativa tanto al serial killer psicopatico – la cui pervasività sta gradualmente minando le serie noir – quanto ai gruppi sociali: il colpo di genio della prima serie di The Following era proprio la contrapposizione tra il solitario Ryan Hardy e la capacità di tessere relazioni sociali del serial killer Joe Carroll; così come l’intuizione iniziale di Criminal Minds era la contrapposizione tra una posse di profiler sociopatici e la psicopatia negativa dei serial killer. Ambedue le serie sono poi naufragate nell’ossessiva reiterazione dei serial killer, scivolando in un’estetica del soft-gore (con punte di franco ridicolo) che ha contribuito, assieme alle derive fascisteggianti di Frank Miller, a preparare l’avvento gore-youtube delle start up del twitter-islamismo (Quadruppani): il boia in nero che parla nel video puntando il coltello verso lo spettatore e tenendo per il collo la vittima occidentale rimanda, per rovesciamento, al serial killer che viene a introdursi a casa tua, titilla la tua paranoia e ti induce ad accettare il comando negativo della governance sociale in cambio di una promessa di sicurezza.

Il ritorno del noir
In questo momento, le librerie ci offrono tre libri italiani nei quali possiamo ritrovare la figura del sociopatico fotografata da Kotsko, all’interno di una struttura narrativa noi. Nei quali non ci sono né il serial killer psicopatico, né il “poliziotto buono” in stile law & order. Nei quali, soprattutto, il noir è dato dalla tonalità, dall’ambiente nel quale i personaggi si muovono. Non dimentichiamo che il noir è, salvo rare eccezioni, anche il racconto di una città, di come viene vissuta, attraversata, calpestata: e se in Un posto anche per me e in L’umano sistema fognario i personaggi si muovono lungo le direttrici che collegano le periferie alla città, in La differenza l’attraversamento porta a condensare la città in un solo luogo – un rione, e al suo interno un appartamento.
Tre romanzi, tre personaggi. Peppino, il primo, è un’anima in pena che vaga sugli autobus e nelle periferie romane, diverso – o diversamente abile – nella propria incapacità di costruire relazioni di causa-effetto ordinarie, ma capace di una visione ingenua e sognata – idiota, nel senso dostoevskijano del termine – del mondo: in qualche modo perseguitato da un passato che con molta lentezza, goccia a goccia, ci si rivelerà. Con Peppino, Francesco Abate riprende un discorso sulla diversità – sulla quotidiana diversità che ci insegnano i condannati ad essere “diversi” – intrapreso in Chiedo scusa: Peppino vive in una sorta di prigione itinerante – «Era stato deciso per la morte. Poi mi hanno dato questo ergastolo», tra il ghetto e la Roma-bene: una vita nella quale «ci hanno sempre imposto di imparare come andare da un punto A fino a un punto B. Ma non ci hanno mai spiegato che è nel viaggio fra questi due punti il succo della vita».
Mario Ombra, uno sbirro che decide all’improvviso di regolare a modo suo i conti col killer della mafia che riconosce in una ordinaria fila in farmacia – una versione sporca di Un borghese piccolo piccolo, nella quale non c’è la lenta discesa all’inferno del piccolo-borghese, perché nell’inferno Mario abita già da tempo, forse per un trauma psicologico di cui sapremo lo stretto necessario, e forse neanche quello: un inferno del quale la chiave di lettura è l’incontro tra un bambino e un gruppo di cartari che potrebbero essere tanto mafiosi quanto sbirri in camuffa – «Tutti, anche al bar all’angolo, gli sembrano schifosamente amici. O infidamente nemici»: la sottigliezza, per non dire la porosità del confine tra ordine e devianza, è la vera sfida, la camminata del funambolo sul filo, di questo libro.
Emiliano Maresca, uno dei tanti sociopatici che Cosimo Argentina ci ha raccontato, da Maschio adulto solitario a Per sempre cannibale, impegnato un una delirante difesa del proprio spazio vitale – l’appartamento e la pensione della madre morta e schiaffata nella ghiacciaia delle birre – e una vendetta cui finalizzare l’odio verso il padre che non ha avuto, invischiato in una città merdosa nella quale «il sole è un copertone incendiato mollato lì, sul ciglio dell’universo» e irretito da una socialità falsa e stereotipata – quella del tarro maschio testosteronico, che finisce col fare della propria sprezzante ironia una seconda natura  che lo ingabbia tanto quanto quella da cui vorrebbe, o forse no, evadere. Argentina ha una sorta di perverso talento nella creazione di figure sgradevoli, talora ripugnanti – in particolare nei loro fantasmi sessuali: ma è forse migliore, ciò che troviamo al di là e al di fuori del romanzo?
Roma (una certa Roma), Palermo, Taranto: tre luoghi dai quali sarebbe bene scappare, ma nei quali Peppino, Mario e Emiliano restano invischiati, con le suole delle scarpe incollate al bitume che si scioglie: il bitume di un mondo falso, sempre sulla lama di un equilibrio «che permette a una società, al limite del cinismo, di nascondere ciò che vuole nascondere, di mostrare ciò che vuole mostrare, di negare l’evidenza e proclamare l’inverosimile. L’assassino non trovato dalla polizia può essere ucciso dai suoi a causa degli errori che ha commesso, e la polizia può sacrificare dei suoi a causa di altri errori, ed ecco che questa compensazione non ha altro scopo che la perpetuazione di un equilibrio che rappresenta l’intera società nella più alta potenza del falso» (Deleuze). Il ruolo della città è, in questi tre romanzi, decisivo: i processi di soggettivazione, di creazione in movimento dei protagonisti – non nature immutabili, ma prodotti della storie e della trama – sono gli stessi processi, regole, dinamiche sociali della metropoli tardomoderna: la falsa natura della metropoli è un artefatto, ma al tempo stesso è l’artefice di quella falsa natura che è il protagonista della trama – al quale, ai quali solo la possibilità di aderire alle proprie derive, di fare dell’inadeguatezza l’unica possibilità di adeguamento del sé a se stesso, può offrire una via di fuga. Il punto non è che Peppino, Mario, Emiliano siano a proprio agio nella propria esistenza come Bruce Chatwin nel deserto: il punto è se arriveranno a chiedersi “che ci faccio io qui?”. E la scrittura, diversa ma convergente, dei tre autori, che ad ogni passaggio sottrae al lettore elementi che possano permettergli di sollevare lo sguardo al di là della soggettiva del protagonista, s’ingegna nel prolungare l’attesa per lo scioglimento del dubbio: Cacciatore procede per paratassi, con violente elisioni e volute spigolosità, Argentina per accumulo manieristico di metafore che schermano il futuro in un presente senza uscita, Abate con una lingua solo in apparenza semplice, costruita con cura a misura di Peppino. Tocca ancora ripetere che gli autori di noir sono capaci, oltre che di narrare, di scrivere?

La regola del noir
In questi tre romanzi vale una regola – forse la regola – fondamentale del noir, enunciata con chiarezza da Manchette: «il noir è caratterizzato dall’assenza o fiacchezza della lotta di classe, e dalla sua sostituzione con l’azione individuale (necessariamente disperata). Mentre i delinquenti e gli sfruttatori detengono il potere sociale e politico, gli altri, gli sfruttati, la massa, non sono più il soggetto della Storia, e ricoprono per lo più “ruoli secondari”, socialmente marginali. Qui però la lotta di classe non è assente come nel romanzo poliziesco a enigma; semplicemente, gli oppressi sono stati sconfitti e sono costretti a subire il regno del Male». Collassa sul Regno del male la scena del noir, e lo svela come tale: una scena catastrofica, sulla quale «la catastrofe non è un incidente della storia, ma un fatto sociale. In qualche modo, i tre personaggi sono schiacciati dalla pesante ombra di una catasttrofe interiore, un evento passato – la figura di Marisa per Peppino, la perdita della figlia per Mario, l’assenza del padre per Emiliano –, e costretti in un mondo senza apparente via d’uscita, nel quale l’impossibilità di trovarsi a proprio agio trasforma l’evento passato in un destino: come se ciò che accade, ciò che noi lettori vediamo svolgersi, sia pre-determinato, pre-significato e pre-giudicato da un passato al quale non si può sfuggire. Ma è la stessa condizione di inadeguatezza – e l’impossibilità, per il lettore, di un’identificazione catartica senza residui – a lasciare aperta la possibilità, tanto nella trama quanto nel reale cui le narrazioni fanno segno, a un futuro diverso.
Il destino esiste, ma a posteriori: il noir ne presuppone non l’eternità, ma la sua creazione» (De Michele). Il mostro d’acciaio che sovrasta e sovradetermina Taranto, le periferie romane, i quartieri popolari di Palermo esistevano ed esisteranno al di là dei brevi momenti in cui dalle cronache locali sbucano sulle prime pagine.
Nulla, di questi microcosmi metropolitani, merita di essere salvato.
Che in queste città marcescenti dimori l’eventualità del sogno di una cosa è possibile, che questo sogno possa essere costruito è il problema all’ordine del giorno: This is the word we created.

1.      Adam Kotsko, Why we love sociopaths. A guide to late capitalist television, Zero Book, 2012; l’essenziale del libro è stato pubblicato come estratto sul “New Enquiry Magazine” n. 3; un suo interessante sviluppo, come commento a Breaking Bad, è Jason Read, Essere il capo di sé stessi: Breaking Bad e l’Imprenditore, “uninomade”, agosto 2012.