Elena Salibra, sulla via di Genoard

01-03-2008

Verso l'altrove, di Niva Lorenzini

La raccolta di Elena Salibra potrebbe recare in epigrafe la nota di Caproni posta a chiudere, nel 1965, il Congedo del viaggiatore cerimonioso e altre prosopopee, ove si legge: “infanzia come luogo – come là – dove a nessuno è consentito di tornare, anche se io ho avuto l’impressione, per un attimo, di esserci tornato davvero”. Anche sulla via di Genoard si apre su un “là”: ed è il luogo dell’infanzia, certo, quella Sicilia presente come “geografia fisica e sentimentale” – chiosa molto bene Marco Santagata nell’Introduzione – e quella Palermo con il parco di Genoard (in arabo, Paradiso sulla terra) esteso attorno a La Zisa, residenza estiva dei re normanni.
Stupisce però subito che di quel “là” si parli al presente, e del resto pochissime forme verbali al passato ricorrono in tutto il libro; nessuna al futuro. Il fatto è che quel luogo della memoria fa tutt’uno, nei versi della Salibra, con uno spazio intimo, una radice geografica e biografica interiorizzata, al punto che il percorso testuale diviene non viaggio verso l’altrove, fosse pure l’altrove dell’infanzia, della memoria, ma viaggio dentro la ricerca di un sé disambientato, nomade, privo di direzione. E in parallelo, l’altrove non è sostanza del mito, ma concreta sostanza autobiografica – lo rileva ancora Santagata – che non crea conflitti tra l’esotico e il familiare, non provoca dissidio.
Un viaggio a ritroso, quello che si intraprende sulla strada di Genoard, che smarrisce di tappa in tappa la propria fine (“non è più tempo di arrivare a Genoard”). Ci si muove in uno spazio senza sviluppo, punteggato di “se” che si connotano come preciso stilema sintattico, indicando un ‘delirio di immobilità’ normalizzato e immerso nel ritmo del quotidiano: la scansione è misurata e ferma, da mottetto montaliano rappreso, prosciugato. L’intera sezione Verso Genoard è occupata da quella cadenza, a partire dal testo di esordio (“Al-Aziz [Zisa] se entri nell’intrico / transmarino tu non sai dove ma / verso Genoard terrestre paradiso / Eluath ti conduce”). Tra geometria e caso, questi frammenti da lirico greco si dipanano metricamente sorvegliati, eppure come esposti al disambientamento, immersi in una sospensione che non appartiene al mito ma si è resa fluida, esposta al rischio di lacuna, di interruzione del gesto, di perdita di sé.
Mi pare opportuno muovere da un rilievo macrostrutturale. Il libro si articola in cinque sezioni (Verso Genoard, Per via, Sosta, Oltre, Ritorno) che si potrebbero definire movimenti musicali (più rappreso il primo; più colloquiale e argomentativo il secondo, vicino alla discorsività degli Xenia montalinai; più cronachistico il terzo; più evocativo il quarto; terminale il quinto, ove si sistematizza ogno impulso centripeto: “dentro il cerchio s’intersecano i miei versi”). La pronuncia è nitida e letterariamenteespera, se solo si presta l’orecchio alle ascendenze lessicalmente, sintagmaticamente montaliane, che tematizzano la vita sospesa, abortita. (“se in fondo non t’attregua”, “t’affanna”, “forse non approda”…). Oppure si può apprezzare il gioco lessicale che punta a esibire etimologie ferite (“guadalquivir lasciami al guado”), o a parodizzare il mito, anglicizzandone i termini, o a travestire la fonte in maniera straniata e straniante. Diviene difficile un elenco, nella mole di occorrenze: ma vorrei almeno ricordare il d’Annunzio dell’estate alcionia qui tradotto in dizione prosciugata, scolorita,, miscidata con inserto dantesco (“poi l’ora si fa piena / - stagna tra aranci e tamerici la rena - / là dove ombra o uomo certo […], a malapena); o il Pascoli di un Alexandros restituito a panni borghesi, da antieroe (“ – ora mi devo congedare Alèxandros / da te che col ceruleo occhio guardi oltre / la palmera i filari amari d’arancio […] forse era più bello restare / conversare […]”.
La parola ‘autoriale’ (Montale, Sereni, Caproni sono tra le voci disseminate lungo il percorso) funziona come fonte generatrice dell’emozione, ma si affida in ogni caso a un tessuto strutturale sintonizzato sul ‘levare’: a partire dai titoli, talora erosi sino alla vocale semplice. Di fatto, pare indicare Elena Salibra, anche le sillabe, le lettere, si inceppano, s’allentano, le parole “s’aggrinzano”, sino a che si delinea, di testo in testo, uno scrivere costruito sulla lentezza, anzi sul rallentamento, proprio, sull’attesa, retta sui “se” cui si è fatto cenno: come se si tentassero possibilità di focalizzazione destinate a restare monche, inesplorate (come lo sguardo che indugia tra strade che si diramano, in attesa di transito tra l’oggi e lo ieri).
Del bisogno di mettere a fuoco, sempre a rischio di sdoppiarsi o alonarsi nello sfocato, fanno parte i corsivi che vengono ad arricchire e complicare la partitura del foglio, quasi che il testo venisse ad ospitare un proprio commento, sdoppiandosi, appunto, tra schegge di realtà (registrate in ‘tondo’) e occasioni liriche (appuntate in ‘corsivo’). L’attrito che si sprigiona dal contrasto fa meglio percepire l’ironia anche ritmica, rimatica di testi che si aprono alla polisemanticità linguistica e multimediale, come accade nelle disorientate cronache di vita metropolitana (“sorry ti ascolto / mi dici buongiorno slowly / tra i rumori del tram”).
La Poesia alta scivola via e convive col quotidiano, o resta un altrove senza contatto, che si incide sul senso di distanza e sradicamento, tra dialoghi spezzati o taciuti (come lo straordinario testo di p.34, costruito su voci che si inseguono senza raggiungersi, articolate tra corsivo e tondo che le rende dialogiche in grazia del puro ricorso tipografico). Tra controllo lessicale attento, spinto ad assaporare la fonetica della parola (“chiacchiericcio” – “primaticcio”…) sino ai gerghi telematici, e l’emergere di epifanie minime, risolte in fotogramma, si fa strada un appello alle cose a non scomparire. E allora le si evoca coi loro “nomi”, proprio come accadeva a Caproni, e le si riconduce al qui di un testo che compare, con quel titolo, accanto alla riscrittura, riconoscibilissima, di una Casa dei doganieri protetta da e nel ricordo, baluardo di fronte all’ineluttabilità dell’esistenza (“non ti ricordi di quell’altra estate / quando la casa rosa stava sola / sopra l’altura. / sentivo l’odore di chi c’era / stato svanire / alla nostra presa […]”).