Elisabetta Liguori, La felicità del testimone

11-01-2012

Intervista di Giovanni Turi

Dopo Tutto questo silenzio, romanzo scritto a quattro mani con Rossano Astremo, Elisabetta Liguori torna alla scrittura solitaria nella Felicità del testimone. Un romanzo in cui a prevalere sulla trama sono gli impercettibili mutamenti interiori e l’immediatezza espressiva è ancella di uno stile franto e oscillante, volto a cogliere quella verità che «rotola ora da una parte, ora dall’altra»  ̶̶  ancor più se dipende dalle parole di una bambina che «come tutti, voleva soltanto essere felice».
La piccola Flavia ha assistito all’assassinio di un politico dai tanti nemici pubblici, per la sua intransigenza, e privati, a causa dell’intensa attività amatoria. Ma, si sa, quando le cose accadono in un piccolo centro del Mezzogiorno l’unica risposta che la collettività concepisce è il silenzio, e allora una «bambina parlante» che vive con la madre svampita e i nonni, e vede l’irruento padre una volta a settimana, è come un vaso di porcellana sotto una pressa. Concetta se ne rende subito conto, ma stenta un po’ a capire che può fare di più di quanto le sia chiesto come assistente sociale: può fare di più per la ragazzina, ma anche per capire come siano andate le cose, e infine per se stessa. Ecco allora che quello che poteva essere un thriller, diventa altro, una storia di formazione forse, o un piano inclinato su cui scivolano le certezze di personaggi e lettori.
In quale scaffale di una libreria collocherebbe idealmente il suo romanzo?
In quello della narrativa neo realista, ma non troppo lontano da quello destinato ai noir all’italiana, anche perché, fossi un libraio, metterei i due scaffali vicini l’uno all’altro per una sorta di ideale connessione logica.
Per cogliere la sua scrittura si può ribaltare questa sua espressione «parlavano delle cose che erano fuori per parlare di quelle che stavano dentro»?
Direi proprio di sì. Volendo immaginare un oggetto per descrivere la mia scrittura, penserei ad un erpice rotante, lo strumento cioè con il quale si dissoda la terra preparandola a nuove semine. Mi piace pensare che la mia scrittura proceda verticalmente, infatti, scomponga il reale in piccoli frammenti quotidiani, per comprenderlo meglio; scavi in profondità servendosi della semplice osservazione dei fatti. Vorrei mettere in scena personaggi e ucronìe, creare relazioni, innescare il cambiamento, rivelando quello che a volte si nasconde dietro l’apparenza. In altre parole: vincere la naturale opacità del mondo, infrangendo una sorta di vetro e liberando il caos.
Una dimensione fondante della Felicità del testimone è quella delle criticità famigliari; quanto lavorare presso il Tribunale dei Minori ha influenzato il suo sguardo?
Si dice che ogni autore scriva sempre e comunque del proprio demone, qualunque romanzo pubblichi. Bene, se è così, allora il mio demone è la famiglia. Lo è sempre stato, per esperienza, per attitudine e per lavoro. Famiglia sì, ma anche le altre relazioni umane in senso più ampio. La coppia, i legami di sangue, le dinamiche amicali. Questo mio ultimo romanzo tratta anche di questo, infatti. Altro non è che la storia di un incontro tra una donna e una bambina. Dunque tra due mondi. Quello di una famiglia disastrata, chiusa nella sua claustrofobica provincia, con quello di una ultra quarantenne alle prese con un lavoro difficile, una madre anziana, un compagno orso, una cagna inquieta e pochi altri amici fidati. Questo incontro è incardinato all’interno di una vicenda giudiziaria con tanto di omicidio, testimone oculare, indagini processuali, ombre e paesi in rivolta. Si tratta, peraltro, di una vicenda ispirata ad un caso autentico che insanguinò il Salento qualche anno fa. È dunque evidente: la prospettiva con la quale sono solita guardare certe dinamiche è quella appresa lavorando come cancelliere. La mia è una testa giuridica: mi servo degli schemi propri del mondo del diritto e il tribunale nel tempo si sta trasformando in un serbatoio infinito di storie alle quali attingere. Il Tribunale per i minorenni, in particolare, è la sede ideale. Qui si studiano e si tutelano i diritti fondamentali di ogni individuo, il nascere e l’evolvere dei primi desideri. Deve essere anche un po’ per questo che mi piace tanto metterli in relazione l’uno con l’altro, misurare la distanza tra un desiderio che nasce e la sua realizzazione successiva, attraverso le variazioni psichiche che tale percorso provoca nell’uomo. E inscenare, dove possibile, evoluzioni letterarie, ipotesi alternative, a partire da storie reali (e desideri reali).
Sempre con Manni ha partecipato alle antologie Mordi & fuggi e Sangu, insieme a numerosi scrittori meridionali e in particolare pugliesi; secondo lei cosa ha portato a una tale vitalità creativa nelle nostre contrade?
La colpa è dei muretti a secco. Ho sviluppato una mia teoria a riguardo. Quel cumulo ragionato di pietre di diversa dimensione che circoscrive le nostre province ben ci rappresenta come popolo. Un popolo ingegnoso, ma di pochi mezzi, che conosce i propri limiti ma sente fortissima la necessità di dar voce alla propria identità. Di reagire al silenzio, anche attraverso l’arte. Quei muretti sono la nostra fortuna e la nostra croce. Ipnotici e imperfetti, uniscono fatica e bellezza, fragilità e forza, vincoli e stimoli, desideri e tormento. Tra loro uguali, eppure diversi. Costruiti con grande perizia si reggono su antiche alchimie, senza nessun collante che non sia l’estro artigianale, tramandato nei secoli e rinnovato nella contemporaneità. Sembrano il frutto semplice di un gesto casuale, ma invece richiedono un lavoro paziente, quanto caparbio. Anche la creatività a Sud è così: espressione simultanea sia del bisogno di reazione che di quello della conservazione. Protesta e vessillo. È facile perdersi inseguendo muretti a secco: le pietre sfarinano, si frangono, si consumano, eppure resistono. A guardarli ti confondono, ti imprigionano, ti contagiano. Quelle pietre, ciascuna nella sua diversa forma, piccole o grandi, leggere o di peso, aguzze o arrotondate, si nutrono della loro stessa molteplicità. Come strumenti diversi, suonano la stessa musica, ciascuno a suo modo. Il rischio è però l’isolamento. Quei muri sono unici, infatti, sempre identificabili, bellissimi da guardare, ma a volte destinati a restare invalicabili, fin troppo lontani dal resto della geografia comune.