Emilia Santoro, La sparizione

27-05-2007

Nel mondo svanito di Cupa Dormiglione, di Emilia Santoro

Oggi ci si occupa di un libro molto strano: La sparizione, romanzo, o per meglio dire racconto lungo di Emilia Santoro. L’autrice è un’insegnante di francese nelle scuole di Marano, periferia Nord di Napoli; e questa sua provenienza non è certo priva di significato ai fini dell’interpretazione del suo lavoro.
Partiamo anzi proprio da qui, da Marano. La località, nel libro, non è mai veramente nominata, anche se alcuni labili indizi – un paio di note a piè di pagina che citano per l’appunto un libro sulla storia e le tradizioni di Marano – ci fanno capire come questo stralunato racconto, con le sue movenze fantastiche, trovi al fondo un ancoraggio nel mondo reale e, anzi, in un piccolo mondo – una Macondo qui denominata Cupa Dormiglione – che è per l’appunto «sparito», nel senso che è totalmente sconosciuto a chi non vi abita pur vivendo a brevissima distanza da esso, e che rischia di svanire definitivamente anche per chi invece vi si trova dentro ormai quasi per un accidente del caso, e non vi si riconoscesse, vi sedimenta una estraneità che, del resto, è quasi una condizione comune per noi tutti che abitiamo ormai più un nostro tempo che un nostro luogo.
Sotto l’ambigua insegna della «sparizione», e ben sapendo, con l’Italo Calvino posto in esergo, che «le città come i sogni sono costruite di desideri e di paure», cioè di presenze umane, sembrerebbe dunque che uno degli intenti di Emilia Santoro, sia quello di andare a perlustrare il territorio di questo suo mondo sparito, una impresa che equivale peraltro al disvelamento di un altro mondo, un mondo segreto, e delle voci che lo popolano, e che nessuno più vuole o sa ascoltare. Un mondo che, esattamente come il suo personaggio principale, il signor Alfonsino, vuole sparire, e si applica duramente per riuscirvi, misurando a tratto a tratto i progressi compiuti sulla via di questa autoconsunzione: da un metro e settanta circa, a un metro e mezzo, a uno e venti… fino alla trasformazione finale che non riveleremo ma che, diciamo così, risveglia alla memoria le storie raccontate da Qtwiq nelle Cosmicomiche, e sia pure come ibridate con altre occorrenze ancora una volta calviniane, e penso (se non altro per il motivo della progressiva sparizione) al racconto di Giovannino senza paura nelle Fiabe italiane.
Insomma, il piccolo libro di Emilia Santoro mi pare aver contratto un suo debito con una zona precisa e vitale della narrativa italiana degli ultimi decenni: quella zona un po’ appartata e sfuggente che opera a dilatare e a sfumare in senso poetico il passo del racconto, e si concentra sulla scrittura per indovinarne una precisione, una asciuttezza, un’aerea sostanza e un ritmo molto curato che si pongono in singolare attrito rispetto all’assunto fiabesco. Territori del genere sono per esempio quelli esplorati dal secondo Celati, quello così lontano dai suoi esordi (cosa che peraltro forma per numerosi sui appassionati lettori motivo di serio rimpianto), o dall’Ermanno Cavazzani dei Poema dei lunatici il quale è fra l’altro appena tornato in libreria con un titolo – Storia naturale dei giganti – che mi pare apparentarsi in maniera assai singolare con la indicibile piccolezza del signor Alfonsino del quale stiamo qui parlando. O, ancora, e per parlare di qualcosa che sta fuori dalla letteratura  ma che con essa intrattiene traffici tutt’altro che banali, dal cinema di Federico Fellini.