Eurobusiness in Iraq

06-07-2004

Per capire cosa significa "ricostruzione", di Marco Hamam



E' da poco uscito un volumetto dal titolo “Eurobusiness in Iraq: dall’esportazione della democrazia ai subappalti USA”, edito da Manni Editori. Si tratta di 100 pagine (per lo più contenenti articoli tratti dalla rete) prefate da Manlio Dinucci - lo stesso autore de “Il potere nucleare. Storia di una follia da Hiroshima al 2015” - che tentano di far chiarezza sul colossale “Affare Iraq”. Il primo merito che ha questo libro è l’aver fornito un valido strumento a chi vuole farsi un’idea di cosa sta avvenendo in Iraq dietro le quinte del teatro bellico, con quell’operazione chiamata “ricostruzione”. Nome, questo, che leggendo il libro inizia con l’apparire dapprima dubbio, poi improbabile ed infine ridicolo. Ed infatti il secondo merito di questo volumetto è l’aver chiamato le cose con il loro nome: non “ricostruzione” ma “svendita”. A svendere un intero Paese come l’Iraq è uno straniero, gli Stati Uniti, che armato di tutto punto e basandosi su motivazioni del tutto menzognere ne ha distrutto le infrastrutture – ministeri, porti, aeroporti, ponti, strade, impianti idrici, elettrici - i settori di macro e microeconomia, radendo al suolo tutto ciò che sarebbe poi stato possibile “ricostruire”. “La guerra per il dopoguerra”, come qualcuno ha definito le imprese belliche statunitensi. Ma il libro della Manni va oltre. Ricondotto il ruolo degli Stati Uniti d’America nel giusto contesto e chiaritene le dimensioni, passa a spiegare il sistema con il quale sta avvenendo la più grande e colossale svendita della storia. Illuminante, in questo senso, è non solo il saggio di Dinucci, ma anche un piccolo articolo dello scorso aprile a firma di Naomi Klein tratto da “The Nation”. Leggiamo: «L’Iraq sta per essere trattato come una lavagna vuota sulla quale i peggiori ideologi neoliberisti di Washington possono disegnare l’economia che sognano: completamente privatizzata, in mano agli stranieri e aperta alle speculazioni […] Cos’ha da fare una superpotenza votata alla crescita ma in crisi recessiva? Dopo tutto i negoziati con nazioni sovrane sono duri. Molto più facile distruggere il paese, occuparlo, quindi ricostruirlo come vuoi. Bush non ha rinnegato il liberoscambismo […] ha semplicemente una nuova dottrina: “Bombarda prima di comprare” […].Quanto si sta pianificando non sono riparazioni, ricostruzione o reinserimento. E’ rapina: furto massiccio mascherato da carità».
Ma cosa si sta rapinando in Iraq? Di tutto: petrolio, acqua, strade, telefoni, treni, porti, aeroporti, trasporti, medicine, ospedali e persino i libri scolastici, alla cui stampa pensa una società statunitense. Tutto ciò che prima aveva l’Iraq, che era resistito a 12 anni di tremendo embargo internazionale  – che in questo contesto appare un buon sistema per annientare l’impianto infrastrutturale statale iracheno in previsione di qualcos’altro - è stato privatizzato e dato in mano alle industrie statunitensi che poi hanno caritatevolmente subappaltato i prime contracts (il grosso dell’affare, per capirci) ai loro amici fedeli che hanno fatto da “palo” alla rapina in corso: Gran Bretagna, Polonia, Spagna (che ora rischia le ire Usa) e in prima fila l’Italia. Ed appare chiaro lo stretto legame tra sforzo profuso (supporto militare) e ricompensa assegnata (subappalti): come dire, più truppe invii più chances avrai di aggiudicarti i contratti di subappalto delle nostre industrie. E’ per questo che Valentino Parlato, nell’ultimo capitolo, definisce questi stati “mercenari”: «mi alleo e guadagno diritto alla mia mercede». Dai “fortunati” sono stati, ovviamente, esclusi i “cattivi” – i cui capofila sono Francia e Germania – ma, nell’immensa bontà statunitense, sono state incluse le industrie di nazioni quali le Isole Solomon o Palau. E dell’Iraq stesso. Peccato che però, poi, all’atto pratico non siano in grado di partecipare alle gare vista la mancanza dei requisiti fissati – guarda caso – proprio dagli Stati Uniti (spesso solo un alto fatturato). Quindi, per esempio, alle industrie statunitensi – la maggior parte delle quali legate a filo doppio con l’amministrazione Bush, in testa la Bechtel e la Halliburton – vengono appaltati, da agenzie come l’USAID e DOD, dipendenti dalla Casa Bianca o direttamente dal Dipartimento di Stato, i porti (ebbene sì, persino i porti) e alle “subnazioni”vengono subappaltati la pulizia, la fornitura di elettricità negli uffici, l’asfaltatura dei ponti, la mensa per i marinai, i dissalatori, i bodyguards ecc. Insomma è il trionfo della privatizzazione più indiscriminata, nel tipico stile statunitense. Stile che si conferma anche quando, in un apparente clima di liberismo più totale, viene imposto il solito protezionismo che deve favorire le aziende Usa sulle altre (per esempio è stata eliminata dalle gare la Torno International di Milano, l’unica capace di concorrere con i giganti americani per i prime contracts).
E in tutto ciò gli iracheni si sveglieranno da questo incubo per scoprire di trovarsi in una colonia statunitense. Ma potranno andare a votare liberamente ed aver libertà di parola e così - come dice la Klein - «dare il benvenuto al magnifico mondo della democrazia».