Fabrizio Luperto, Cinema calibro 9

03-01-2010
Il critico in divisa, di Gian Luca Favetto

Inseguimenti e sgommate. Vecchie Fiat e Bmw bianche che corrono per le strade di Roma, Milano, Napoli, Torino, Genova. Poliziotti e banditi. Giustizieri fai da te. Donne destinate al macello. Sparatorie. Pomodoro che condisce abiti invece di paste e fa sangue. Stupri. Massacri. Indagini. Sentenze come: «Fai agli altri quello che loro vorrebbero fare a te, ma fallo prima». Oppure: «Se non ti difendi da solo, non ti difende nessuno». Grugni, ghigni, maschere impassibili da duri di periferia e un discreto numero di baffi. Comunque e sempre: azione. Roba da artigiani pirotecnici, da spericolati della sceneggiatura e della macchina da presa, da pochi maledetti e subito. Ovvero: arraffa più che puoi alla cassa del cinema. Sono questi gli ingredienti del poliziottesco, il poliziesco un po’ grottesco all’italiana. Nove anni di fuoco, 1972-1980. Come il calibro dei proiettili che più spesso lo accendevano, quel fuoco: calibro 9, appunto.
Il cinema calibro 9 è il titolo di un volume che la casa editrice Manni manda in libreria a febbraio. Sottotitolo: «Guida al poliziottesco». Un lavoro che nasce dalla passione. Un catalogo. Un pratico e svelto manuale per rivedere – dal punto di vista del cinema di genere e della cronaca nera – come eravamo; com’era la società italiana trenta, trentacinque anni or sono; come ci raccontavamo. Anche così.
L’autore è Fabrizio Luperto, 40 anni fra pochi giorni, pugliese di San Cesario, provincia di Lecce, sottufficiale dell’esercito, dal 1995 a Torino, gran frequentatore di festival e sale cinematografiche, divoratore di film, ammiratore di Quentin Tarantino, appassionato di cinema indipendente americano, profondo conoscitore del cinema di genere italiano. Ultimo film amato: A serious man dei fratelli Coen.
«Il mio scopo – spiega Luperto – è fornire gli strumenti necessari per invogliare i giovani a scoprire i film che hanno incantato i padri e per ravvivare la memoria di quei quarantacinque-cinquantenni che da ragazzi a questi film si sono appassionati.
Non è un saggio e non vuole esserlo. Nasce dagli appunti che ho scritto per me nel corso degli anni».
In venticinque capitoli, il libro delinea una breve storia del poliziesco all’italiana, il più maschilista dei generi, il più grezzo e spietato. A partire da La polizia ringrazia uscito nella primavera del 1972, firmato da Stefano Vanzina, il padre degli oggi popolari fratelli Carlo ed Enrico, l’indimenticabile Steno. Fino a Il giorno del cobra di Enzo G. Castellari, Luca il contrabbandiere di Lucio Fulci, Poliziotto solitudine e rabbia di Stelvio Massi, La pagella di Ninì Grassia, usciti tutti nel 1980. Volendo citare titoli di casa: a partire da Torino nera di Carlo Lizzani fino a Tony l’altra faccia della Torino violenta di Carlo Ausino. Cataloga registi, attori, attrici, comprimari, compositori, personaggi. Da Umberto Lenzi a Sergio Martino, da Castellari a Massi. Da Tomas Milian a FranFranco Nero, da Maurizio Merli a Luc Merenda. Da Laura Belli a Janet Agren, da Marisa Mell a Luciana Paluzzi. Da Don Backy a Renzo Palmer, da Ray Lovelock a Nello Pazzafini. Da Guido e Maurizio De Angelis a Luis Bacalov, da Ennio Morricone a Stelvio Cipriani. Dal commissario Betti al commissario Mark, dal Gobbo a Monnezza. E poi, i casi di un regista di culto come Fernando Di Leo e di una pellicola come Cani arrabbiati di Mario Bava. E ancora, le pietre miliari: Milano odia: la polizia non può sparare, Il cittadino si ribella, La polizia accusa: il servizio segreto uccide, Roma a mano armata. Infine, un dizionario di centonovantaquattro titoli.
«Andavo al cinema da solo a sei, sette anni, nella sala di seconda visione – ricorda Luperto – Era diverso a quei tempi, in provincia, al Sud. Si girava tranquillamente in paese. I film da noi arrivavano in ritardo. Li vedevo spesso con gli amici, anche se erano vietati ai minori di 14 anni: nessuno ci faceva caso. Posso dire di amare il cinema di genere, perché ci sono cresciuto. Da grande ho studiato e approfondito ciò che avevo visto da bambino, affascinato da quei mondi metropolitani che a noi sembravano incredibili, da una violenza impensabile».
Quella realtà era svelata sul grande schermo. Veniva tradotta in immagini la cronaca nera. Così la provincia scopriva la metropoli.
Tutto per mano di un gruppo di artigiani del cinema che non pensavano di fare capolavori, solo guadagnare soldi. Ciò che rimane sono parziali ma ottimi documenti di un’epoca passata, un po’ di orrore e un po’ di nostalgia.