Giò Stajano, Pubblici scandali e private virtù

26-02-2007
Vita e scandali e opere pie di Giò Stajano

Ho sempre immaginato il mondo della politica – specie quello degli ultimi anni – come un grande sfarzoso palazzo di epoca barocca, riccamente arredato e illuminato, nel quale va in scena – costantemente, senza soluzione di continuità – un gran ballo, alla maniera della ricche corti europee del Settecento. È facile figurarsi così, dentro le lussuose e, per molti, invalicabili pareti di fastose sale e saloni, fra fluttuanti anelli di fumo, vicende e accadimenti fra i più vari e inimmaginabili, incontri più o meno clandestini, sguardi e occhiate d'intesa, sorrisi di facciata, cortesie e promesse mai mantenute, maschere travestimenti e trucchi d'ogni genere e colore, schermaglie e segreti amplessi tra dame e signori che la luce del giorno vorrebbe in insanabile discordia.
Anche Giò Stajano, il vate della Dolce Vita romana, il nipote di Achille Starace, rinata a suo tempo come Gioacchina Stajano, la prima trans della storia patria, è stata invitata più volte a questo ballo, al quale ha preso parte in più di un'occasione. Le ho chiesto di raccontarmene qualcuna:

Conosco il gioco politico sin dall'infanzia, per infelice esperienza di famiglia.
Non mi sono mai stupita né scandalizzata di ciò che esso comporta e produce e di come può far cambiare le persone che vi si dedicano.
È lampante poi che, se si briga tanto per assicurarsi il potere, non lo si fa solo per fondare patronati o associazioni di disinteressata beneficenza.
Comunque è un gioco che non mi interessa e non mi ha mai interessato.
Ho sempre ritenuto il mondo politico troppo spocchioso e stressante per la mia indolenza.
Tuttavia è capitato anche a me di restarvi coinvolta, sia pure marginalmente.
Per esempio tra il 1960 e il 1962, quando collaboravo alla "Cronaca Bizantina" del settimanale "Lo Specchio". Per non so quali motivi suoi, l'editore-direttore di quel giornale, in quel periodo ce l'aveva con l'allora ministro del turismo e spettacolo, Alberto Folchi. Il quale, di per sé, era un signore molto cordiale e simpatico.
Fatto sta che ogni qualvolta aveva luogo una prima teatrale, una pubblica inaugurazione o il vernissage di una mostra d'arte importante, in Roma o dintorni, con l'intervento del ministro, io venivo sistematicamente inviato là.
Ovviamente non da solo, ma insieme al fotografo del giornale, il quale aveva il compito di fotografarmi non appena mi trovavo accanto al ministro.
Il mio lavoro, naturalmente ben retribuito, era di far sì che quel momento capitasse.
Quelle fotografie compromettenti, non dimentichiamo che in quegli anni io ero l'unico scandaloso simbolo vivente delle italiche deviazioni sessuali, venivano pubblicate su "Lo Specchio" con gran rilievo e ammiccanti titoli quali "Giò ancora con..." oppure "Giò sempre insieme a...", "Umbertone sempre insieme a Giò...".
Il ministro ormai mi vedeva dappertutto e cercava di sfuggirmi, ma sempre con poco successo e grande turbamento
Stesso turbamento e panico colse l'onorevole Andreotti nella serata del Premio Strega del 1987. Dopo avermi salutata, sbiancò in volto, quando al lampeggiare dei flash dei fotografi, si rese conto che stava calorosamente stringendo la mano alla scandalosa Giò Stajano, da poco diventata una donna esuberante e appariscente, biondissima e ancora più trasgressiva di prima.
Io sentii sfuggire dalla mia mano le dita della sua, quasi fossero viscidi tentacoli retrattili di una seppiolina. Diversamente si comportò invece con me, un altro grande uomo politico, il senatore e presidente del Senato Giovanni Spadolini, il quale, quando gli fui presentato, nonostante i fotografi, continuò a conversare con me con gentilezza e fair-play, da vero signore qual era, informandosi anche della mia famiglia.
Un altro uomo politico che si trovò ad essere bersagliato insieme con me da fotografi e operatori televisivi fu l'onorevole Evangelisti, nell'autunno del 1962, a Castellaneta, in Puglia, durante l'inaugurazione del monumento che quella città aveva dedicato al suo figlio più illustre, Rodolfo Valentino. Fui invitato là da alcuni amici giornalisti de "Il Borghese".
Quando l'onorevole terminò il suo discorso di circostanza e il monumento venne scoperto, io, seguendo le istruzioni dei miei amici, alto, solenne e tutto di nero vestito, avanzai tra la folla che fece ala al mio passaggio.
Avevo tra le braccia un enorme mazzo di rose rosse. L'onorevole Evangelisti, convinto che quell'omaggio floreale fosse per lui, mi accolse con un luminoso sorriso, ma io, scansandolo andai a deporre le rose ai piedi della statua a nome di tutte le "vedove di Rudy" del mondo.
Il tutto tra il ronzio incessante delle cineprese, il lampeggiare dei fotografi e l'imbarazzo generale. Il sorriso dell'onorevole si spense trasformandosi in una delusa e imbarazzata espressione di austero e compartecipe cordoglio.
Quando invece incontrai Giorgio Almirante in un ristorante di Sabaudia, durante un simposio politico e gli venni presentata come la nipote di Achille Starace, si alzò da tavola, mi baciò la mano con un inchino e mi pregò di fare a mia madre i suoi più sentiti ossequi.
Fui anche coinvolta, dai servizi segreti, nel 1961, per convincere alle dimissioni un alto ufficiale dello Stato maggiore dell'esercito. Bastò che alloggiassi nello stesso albergo del generale per tre giorni, senza mai incontrarlo direttamente.
La mia ambiguità, per niente nascosta, mi aveva elevato a simbolo della perversione più abbietta ed io la usavo a quei tempi per massacrare il perbenismo democristiano imperante.
Io, fotografato da bambino, in braccio al Duce, ero ora l'ambiguo esponente del corrotto mondo omosessuale, ed "esperto de li vizi umani".
E proprio a questa mia grossa competenza – se si vuole acquisita sul campo, e quindi verosimilmente molto attendibile – devo il mio coinvolgimento nel processo seguito al clamoroso scandalo dei "Balletti verdi", nel 1962. Si trattava di una storia di corruzione di minori che coinvolse pedofili aristocratici della Brescia altolocata.
Fui convocato dai due magistrati che conducevano le indagini come consulente esperto in materia. I due giudici volevano lumi, da me, sugli usi e costumi di quel "torbido e corrotto ambiente", nonché sugli eventuali collegamenti tra la "consorteria" omosessuale di Brescia e quella della capitale o di altre città d'Italia.
Mi presentai in tribunale, per la mia deposizione, funereamente vestito di nero, con al braccio un borsone anch'esso nero, colmo di enormi matasse di lana rosa-shocking e un paio di grossi ferri da maglia, con i quali mi misi a sferruzzare in attesa di essere interrogato, in un tripudio di lampi dei flash dei fotografi, presenti in forza.
Il giorno seguente tutti i giornali della penisola pubblicarono quelle fotografie, definendomi "la Penelope italiana". Eppure non ho mai disfatto nessuna tela...