Giovanni De Rose, Negli occhi di chi guarda

05-09-2008

Gli occhi del migrante. Il Novecento di Iennaru, di Giuliano Santoro

Un’epopea migrante che parte dallo scenario incontaminato delle montagne dell’Appennino calabrese dei primi del Novecento e arriva fino al paesaggio western dell’Arizona del rapinatore John Dillinger. Una storia di avventura e di passioni che unisce il realismo magico sudamericano e il romanzo civile italiano. Questo è Negli occhi di chi guarda di Giovanni De Rose, presidente dell’Arci bolognese e scrittore esordiente.
La storia parte all’alba del secolo scorso da uno dei villaggi sospesi tra i due mari che contrappuntano le montagne calabresi. Qui Iennaru coltiva la sua smania di conoscere e la sua inquietudine esistenziale, anche grazie all’aiuto di un prete in esilio, che lo istruisce a inseguire l’amore a qualsiasi costo. Iennaru impara presto la forza della soggettività contro le pretese di oggettività: «La poesia è negli occhi di chi guarda», gli dice il suo maestro. Così, negli occhi di Iennaru passano l’oceano e lo sbarco a Ellis Island, l’arrivo a New York e la scoperta che le comunità etniche da spazi di accoglienza e mutualismo possono diventare anche luoghi di costrizione sociale. Per questo Iennaru, che è andato in America non per far soldi ma per smania di conoscere cose nuove, si rimette in viaggio e approda in un polveroso paese lungo la frontiera.
Conoscerà l’amore per un uomo e frequenterà una prostituta figlia di Kit Carson. Ma non si accontenterà neanche questa volta. si rimetterà in cammino e arriverà tra i minatori del New Mexico. All’alba della prima guerra mondiale, parteciperà agli scioperi degli Wobblies e sperimenterà la terribile repressione che si scaglia su chi osa mettere i bastoni tra le ruote della macchina da guerra messa in moto a tutta forza.
Pur tra ingenuità stilistiche e qualche passaggio eccessivamente retorico (una sottile ma importantissima differenza distingue chi gioca con il topos di un genere narrativo e chi se ne fa catturare), il romanzo di De Rose ha il pregio di ricordarci che la forza storica dell’emigrazione è dettata (anche) dalla curiosità e dalla creatività, oltre che dallo stato di necessità e dalla fuga dalla povertà. Troppo spesso la lettura «pietistica» di una certa sinistra lo aveva nascosto.