Giuseppina De Rienzo, Vico del fico al Purgatorio

22-06-2008

Napoli, il racconto della realtà in un legal thriller, di Francesco Durante

La miglior recensione al nuovo romanzo di Giuseppina De Rienzo, Vico del fico al Purgatorio, l’ha probabilmente scritta Andrea Di Consoli, e si tratta della quarta di copertina del libro. Onore dunque al genettiano paratesto, quella roba editoriale che siamo usi a paragonare al grido di un venditore di tappeti un po’ imbroglione, e che invece stavolta non solo dice il vero, ma lo dice pure con singolare perspicuità. Io, dunque, che posso aggiungere a Di Consoli?
Mi tocca intanto dire, in modo telegrafico, che storia è questa. Di base, è una specie di «legal thriller». Un’avvocatessa bionda, quarantenne, borghese, ancora vagamente innamorata di un uomo sposato che l’ha illusa su un possibile futuro di coppia (molto riuscite le pagine, spesso ad alta temperatura erotica, che raccontano questo rapporto), e da meno di un anno toccata dalla tragedia della lenta morte per cancro della madre (anche qui, pagine molto forti, strazianti e ispiratissime), è incaricata della difesa d’ufficio di Mariuccia Cuomo, arrestata per aver ucciso il marito affondandogli nel petto un paio di forbici da sarto.
Seguiremo nei dettagli tutta questa vicenda, attraverso le varie fasi processuali, l’escussione dei testi, la minuta ricostruzione degli eventi e la tesa atmosfera dell’aula di tribunale, che De Rienzo sa rendere con grande perizia. Ma ovviamente la difesa di Mariuccia coinciderà anche con una specie di full immersion nel mondo dell’imputata, che è una donna del popolo di Napoli, e si porta dietro e dentro una storia d’incredibile degrado: il marito è un pregiudicato, un violento che le ha tolto due figlie, che le lesina i soldi per mandare avanti il basso e provvedere all’educazione del figlio maschio Maurizio detto «Riggi» (come il Ridge di Beautiful), la tradisce con la sorella di lei, e se ne vanta, e di Mariuccia si ritiene, spalleggiato dai familiari di entrambi, una specie di signore assoluto cui unico dovere sia quello di prenderla a «mazzate».
Storie di promiscuità, di muta dannazione; di quelle che le cronache certificano essere assai diffuse, benché paiano avvenire in una galassia remota rispetto a quella frequentata dai napoletani bennati. De Rienzo ce le racconta con voce sicura e ritmo incalzante, affidandosi al parlato dei suoi personaggi, in particolare a quello di Saverio detto Eva o Ev, un anziano «femminiello» che è lo zio di Mariuccia e la presenza più memorabile del libro, con le sue reticenze, le improvvise timidezze, i gesti sempre felpati come per l’abitudine di nascondere un vissuto doloroso e difficile. La storia raccontata dalla De Rienzo è anche la storia del rapporto che si crea tra l’avvocatessa ed Ev, tra due mondi così distanti, che sul finale si cementa in vera confidenza, allorché la bionda borghese si risolve a chiedere proprio a Ev lumi sul mistero dell’amore e su come gestire l’imprevisto ritorno di fiamma del bellimbusto che per troppo tempo l’ha illusa. Sarà Ev a dirle che cosa fare, e leggendo il capitolo finale capiremo che sarà stato un ben astuto consiglio.
Un libro bello e ricco, quindi: se ripenso all’esordio della De Rienzo, al quasi metafisico La pianura del circo, e lo accosto a questo realismo robustissimo e insieme così sensibile all’intima natura dei personaggi, mi sembra di vedere che molta strada è stata proficuamente percorsa.
Ma, per finire, scuoto un po’ di forfora dal mio parrucchiere e passo a qualche onesta reprimenda. C’è infatti, nel libro, una cosa che non mi piace e, anche se in fondo non è così rilevante, voglio dirla. Riguarda il modo in cui parlano alcuni personaggi, Ev soprattutto, ma anche Mariuccia. Mi rendo conto della necessità che l’autrice ha avuto di rendere espressionisticamente il sound del loro parlato. Per farlo, però, è ricorsa a certi artifici che a mio parere non stanno in piedi. Se è infatti perfettamente credibile che Ev domandi «Sei ggiornalista?», al contrario fargli dire «I numeri ccivici non ci stanno» oppure «Sai, io ttaglio, ricamo» rischia di farlo diventare siciliano da napoletano che è. Analogamente, mi lascia assai perplesso sentire Mariuccia che racconta di suo marito che «mi voleva fare àbbortire»: così, con quell’accento sulla a che forse vuole aiutarci a cogliere il tono generale dell’espressione, ma finisce per confondere occhio e orecchio. Ma l’ho detto, non sono questioni capitali: solo un problema, cui forse un po’ di editing potrà porre riparo nella prossima edizione – che il romanzo vivamente merita.