Laura Canciani, Reato di parola

01-09-2004

La parola come reato nella poesia di Laura Canciani, di Giorgio Linguaglossa


La poesia di Laura Canciani si rifugia nel solipsismo della soggettività monocratica quale ultima dimora di autenticità entro il mondo falso e bugiardo. Dal mondo dove sono stati cacciati gli dèi, questa poesia officia la liturgia della soggettività monocratica come da un palco occupato dall’empatia del soggetto che risponde con i suoi cerimoniali ossessivi alla denudata materialità del reale mediante la smaterializzazione della propria impalcatura, dei propri cerimoniali ossessivi. Ed è in questo circolo tautologico che si snoda la sfida poetica, l’epifania della Parola poetica, che ripete, nella fedeltà alla propria orbita, il tradimento della dissoluzione.


Messa in questi termini, si comprende come la poesia di Laura Canciani si inscriva nel contesto, presente nella poesia degli anni Novanta, della costruzione di un Canone alto e di un’interrogazione metafisica: la domanda sul senso dell’essere, in un moto di reazione interna all’egemonia del minimalismo e del Canone basso da quest’ultimo professato. Il genere lirico prescelto è la poesia-confessioe scandita sul metro base endecasillabo ipermetricamente normoaccentato ed il lessico è disincarnato, spolpato fino all’osso, fino a giungere ai confini di un idioletto impenetrabile e sontuosamente spoglio come una cattedrale gotica, con picchi assoluti, vertici aerei e fratture scoscese ed improvvise. A volte, immagini di una estenuata sensualità (“orchidee biancomemoria”) affiorano nell’esperienza perimetrale della soggettività monocratica.
“È un bosco reale / di orchidee biancomemoria: / adesso inciampo e cado, cado, / paura e percepire la caduta: / dietro ogni caduta si nasconde / un’avversione, anzi, l’avversario”, “Non guardo più dietro, / attenta ai segnali, tu non stai / attenta ai segnali: // voglio versare una sottile volontà / nel varco delle foglie”. La stessa abbondanza di pericoli esiziali che tramano la vicenda esistenziale di questa poesia, la dipinge come poesia che definirei dell’ontologia della crisi, quella particolare versione della crisi del tardo Moderno che abita la Parola poetica minacciata ed accerchiata dall’invasione dei linguaggi mediatici e minimali.
Ma il solipsismo della soggettività monocratica, parafrasando Schopenhauer, è una fortezza inespugnabile che può tranquillamente lasciarsi alle spalle l’esercito invasore del Moderno, con i lanzichenecchi della forma-merce verso cui questa poesia risulta osticamente avversa. Questa “controversia dei capelli”, questo combattimento iconoclasta ed iconologico contro la modernità invasiva, costituisce una invariante della ricerca poetica della Canciani. Affinché tutto cambi, occorre che nulla ne varietur, perché è falso e bugiardo dire che la poesia non cambia il mondo, la Parola della Canciani, inchiodata in impenetrabili profondità, rischia di abitare la “Verità” e quindi di cambiare se stessa: “Ho cambiato l’occhio. / Ora d’un tratto / vedo / che conduce a smascherarmi tutta / l’infermità in disordine, Instancabile…”.
Cito la poesia d’apertura di Lo stesso angelo (Roma, 1998):


La soglia sottratta
genera
omissioni ostruenti:
è la sosta putativa che
muove all’alleanza inclinata
negli spazi
– aguzza posizione di esordio.


Nell’indefinibile diritto d’ingresso
com’è difficile la parola
a penetrare, ad attecchire sul palmo
l’erba lungimirante.
Appesa a un filo di febbre
l’attesa esulta
intuizioni indifese.
Che questa poesia risponda con la propria sondata smaterializzazione dirimpetto alla durezza dell’essere e al suo interminabile indebolimento è un fatto inoppugnabile che emerge da subito nel titolo: Reato di parola. Perché v’è reato la dove c’è la parola, e la Parola inequivoca, se attinta, rappresenta il Reato massimo: la Parola sfida così il limite dell’indicibile, ed è autentica soltanto nell’àlea di questa scommessa locutoria. L’enunciato sfida il non enunciabile a venire allo scoperto, alla luce: “Veloce come slitta sulla neve / poesia / che ho sempre amato, scontrosa”.