Laura Sergio, Il filo della scure

21-03-2015

Il grumo di parole, di Roberto Cescon

Laura Sergio ha esordito già nel 2003, quando sue poesie sono uscite su Nuovi Argomenti, e nel 2007 nell’antologia dell’Almanacco dello specchio, a testimoniare una dedizione al verso profonda e precoce.
Leggendo la sua raccolta “Il filo della scure” (Manni, 2014), l’attenzione va subito al grumo di parole che è la corporeità di cui è fatto il libro, testi che diventano presenze di un corpo che vive e si guarda, e davvero usa tutti i sensi, anche in modo sinestetico – sguardo, colore, tatto, ecc. – per esplorare il mondo, il proprio mondo, e dargli un senso plausibile e leggibile (dalla prefazione di Mario Benedetti).
Nella sua poesia i significanti si coagulano attorno ai temi morte, dolore, malattia, la cui spinta magmatica è frenata dalla nettezza dei versi, talvolta davvero splendidi (Deliquata difesa di palpebre | a chi impetrata infligge la pena; Guardo dal bacino il feto | che si apre come un impasto di carne. | E slargate gemmano le labbra; L’occhio guarda come una mano aperta). Il libro inizia con alcune brevi prose, le quali ad un certo punto si aprono in versi che oscillano tra le misure classiche del settenario e dell’endecasillabo, ma che non temono metri anche più lunghi. Ciò che appare costante è una certa tensione nella fissità percettiva, che ci fa vedere urla, ferite (cicatrici, crepe) e dettagli del corpo (cranio, mani, unghie, labbra, pelle, ma anche frequente è la presenza del corpo interno con vene, sangue e ossa) su cui s’infossa il primo piano dello sguardo, che restituisce una realtà non cupa, ma piantata nella cruda terrestrità dell’esistere.

Le unghie sulla porta, per uscire o entrare. Il crepitio improvviso della rottura all’orecchio. Si muove a passi pesanti, sempre sul punto di inciampare in una sedia e voltolare come una cosa destinata a rompersi.

*

Come la sentissero sopraggiunta nella friabilità delle ossa, nell’impossibilità di muoversi senza dolore. Come la fiutassero, la riconoscessero nel loro stesso odore. Quell’umido che ristagna tra le cosce, che sale al naso, rappreso, che fa tutt’uno con la pelle, che diventa pelle, il loro stesso odore.

*

O scalcata di vene
appiccata alla testa
dentro come il filo della scure
mi vedresti infissa allo specchio
nella visione e nel trave del nervo
e di crine scaltrita e scontornata
mi vedresti come sfilata dall’innesto
della scure a disfare il subito fatto
per un capriccio di bambino.

*

Eri sospesa come in figura il fante
o le corde che involano l’atleta
la pelle tesa nella postura slabbrata delle cose.
Sto alla recita come il cattivo attore
il sorriso scontroso al volto spaurito.
Sfuggire il silenzio è per sfuggirsi.

*

Gli uomini camminano senza rumore
le ossa del corpo all’estremità del ponte
mucchio di sassi, cosa diversa
da guardare che suddivisa
si disserra, la calca disinvolta
come l’animale si liscia
dove si abbassa l’accetta.
Lascia che mutino e muoiano
seguendo ognuno la propria solitudine.

*

Questa donna invece è solo piedi
arroccati su un’unghia ingiallita.
Sono pesci le vene sotto il bianco
della pelle, sul dorso
convergono viola e verdi nell’incavo
dei tendini, appena in rilievo, sottilissimi.
Li sfioro col dito,
li percorro in lunghezza mentre dorme.