Lidia De Federicis, Del raccontare

15-04-2005

Il mondo attraverso "la trama mia e altrui", di Giorgio Luzzi


Si può venire a sapere molto della vicenda umana e intellettuale di Lidia De Federicis leggendo anzitutto lo scritto d’apertura di questo libro, uno scritto in certo modo inaugurale e fondativo in rapporto alla comprensione del libro stesso. In una sorta di singolare autointervista (le pagine, fluide e compatte, è come se presupponessero una serie di interrogazioni ordinate al raccontare) scorrono, orientati a una discreta tipicità, i motivi delle origini sociali (fusione nord-centrosud nella coppia genitoriale di piccolissima borghesia), della situazione italiana nell’immediato dopoguerra, dell’affacciarsi alla opzione politica verso la sinistra socialista di Riccardo Lombardi, della scelta della professione e dei suoi forti connotati simbolici soprattutto interni alla demarcazione sessuale che li costruisce.
In quest’ultimo senso si sfila dal “racconto” un elemento guidato che sarà destinato a irradiarsi sull’intero libro: il formarsi della donna intellettuale introdotta al docere, in rapporto al doppio dislivello di sesso e di ceto. Diciamo subito che il rischio autoreferenziale è immediatamente evitato, non solo in virtù di un’ironia che si indovina piuttosto che agire direttamente sull’intonazione del testo, ma soprattutto grazie alla deliberata volontà di fare del proprio caso personale un emblema estensibile al quadro sociale mosso dagli spostamenti delle generazioni.
E infatti sarà questa la scelta –continuamente viva e attualmente operosa nella vita redazionale della rivista torinese "L’Indice" – di De Federicis accantonare i connotati costitutivi interni al testo letterari (stile, sintassi, costellazioni di interdipendenze attorno a modelli canonici) e fare emergere piuttosto il grado di documentarietà del testo narrativo, la sua rappresentatività in relazione al costume e ai suoi mutamenti, all’immaginario collettivo e ai suoi dispotismi, ai conflitti e ai desideri nell’avvicendarsi delle generazioni; e soprattutto l’attenzione al percorso verso la parità da parte del soggetto sociale femminile nell’Italia postfascista. Insomma il “tipico” della studiosa non va indagato ripercorrendo i clic spitzeriani o i protocolli narratologici, quanto proprio rivisitando in modi autenticamente curiosi le possibilità di rimettere in moto la nozione di omologia come un certo marxismo critico ci ha abituati a intendere.
Il libro è scritto nello stile implosivo, dotato di una grande energia di irradiazione, che è noto a quanti seguono "L’Indice" e le pagine dedicate ai libri di narrativa dei quali De Federicis è puntuale, e spesso pungente, commentatrice. Non è perciò facilissimo cogliervi le coordinate preferenziali che il titolo (Del raccontare) e soprattutto il sottotitolo (Saggi affettivi) desiderano imporre. Il titolo, peraltro, sembra chiaramente espressivo del suo doppio strato che è nell’attitudine a raccontare il raccontato. Dal racconto di sé nell’ampio e istruttivo saggio iniziale di cui ho detto, peraltro catalogato sotto la riduttiva categoria di “Notizie personali” (ma riflettiamo un momento su questa domanda programmatica: «Cos’è successo nella scuola delle donne?»); fino al distendersi del libro in parti precise che mantengono la promessa dell’introduzione, cioè «la trama mia e altrui», ancora una volta raccontare i (e soprattutto le) raccontanti, e in questo raccontare offrire uno spazio non subalterno alle stesse proprie idee utilmente professabili senza che mai, dico mai, l’ombra del più impercettibile moralismo scenda su questo sistema di pensiero. Si tratta quindi di autobiografia, anche dal punto di vista della posizione del critico stesso, che si confessa nell’atto stesso di scegliere; poiché, soprattutto, questo scegliere non è meritocratico né agiografico, bensì, come si è detto, indiziario, orientativo dei mutamenti, delle differenze (quella sessuale anzitutto), delle generazioni, dei diversi usi della memoria.
Le altre parti del libro si preparano a propria volta a pieno titolo l’ingresso nella dimensione “affettiva”, distribuita tra sostanzialità tematiche (ancora la scuola nei romanzi in evidenza), l’esplorazione di certe invarianti attorno alle polarità coscienza/biologia e laicità/religione, e infine il resoconto soggettivo tramutato nella rassegna emblematica dei titolo scelti dentro un ideale “archivio” temporale peraltro non convenzionale. Che cosa concede all’autrice di situarsi saldamente dentro il “film” sociale di questi anni? Mi pare che questo valore aggiunto possa essere il discorso del corpo e sul corpo, tanto vivo e presente in ogni parte del volume, l’opposizione materialistica congiunta al quid differenziale del soggetto il mestiere di insegnante, quando è una donna che lo esercita, «l’obbliga a spremere le proprie qualità nel mostrarsi. Il corpo è la sua prima unità semantica». Da oggetto seduttivo a soggetto sociale, dunque: e se fosse proprio questa la trama di autodeterminazione, e anche di dolore e di morte, che tiene insieme le parti di questo insolito, difficile e illuminante volumetto?