Mai pe iabbu

07-12-2015

Piccolo viaggio nel dialetto salentino, di Alberto Sobrero

 Piero Manni dismette per una volta gli abiti dell’editore e ci offre una raccolta curiosa e intrigante di “vocaboli ed espressioni intraducibili del Salento”. La solita raccolta nostalgica di parole dialettali ormai desuete, dirà qualcuno. No: l’operazione è squisitamente culturale, più linguistica e antropologica che banalmente nostalgica.

Le 41 schede sono sufficienti a farci ricostruire, almeno in parte, “la ricchezza, la opulenza di una lingua formatasi, cresciuta ed adeguata a un territorio e alla cultura materiale legata ad esso, provvista delle informazioni e conoscenze congrue ed acconce a relazionarci col territorio e con la comunità” (così in premessa).

Si tratta, dunque, di parole e concetti ‘intraducibili’. Perché? Perché, appunto, sono specifici di un territorio, di una cultura che ha dato un nome non solo ad ogni oggetto di cui via via entrava in possesso – su queste parole e sulla loro storia siamo ben documentati – ma anche a sentimenti, atteggiamenti, sensazioni particolari, a prospettive di analisi della realtà, usanze specifiche, stereotipi, credenze e pregiudizi. Su questi siamo poco e male informati (è più facile studiare le denominazioni di un oggetto che i nomi che si danno a uno stato d’animo), anche per un motivo strettamente linguistico-antropologico. Tradurre vuol dire trasferire da un sistema linguistico a un altro, ma nella traduzione è molto quello che inevitabilmente si perde, soprattutto quando i due sistemi linguistici hanno alle spalle storie e culture molto diverse. È il caso del salentino, storicamente e antropologicamente ben lontano dal toscano-italiano. Accade così che per molte parole ed espressioni dialettali non ci possa essere una traduzione parola-a-parola: per dare il significato di una parola bisogna usare perifrasi, circonlocuzioni, ma anche esempi di usi diversi in contesti diversi, e illustrare gli scostamenti dal significato-base. Altrimenti si perde buona parte – spesso la più caratterizzante – del significato.

Piero Manni fa proprio questa operazione, rendendoci per ogni voce una definizione ricca e articolata, spesso con prudenti etimologie, accompagnata da più esempi in contesti d’uso diversi (in una sorta di piccola rubrica intitolata ‘come usarlo’) e, per 13 voci, da rapidi ‘commenti d’autore’.

In questo piccolo ma gradevolissimo libro c’è un elenco alfabetico di:

- verbi che hanno ampliato il loro significato, partendo da azioni e situazioni della cultura materiale salentina per estendersi a stati d’animo: ad esempio ncutugnare, da ‘percuotere ripetutamente’ – con richiamo etimologico alla mela cotogna – a ‘provare rabbia senza potersi sfogare’ e ‘rattristarsi’; bbampare: da ‘bruciacchiare’ ad ‘arrossire’;

- sostantivi che si riferiscono a usanze ben radicate nel territorio: crianza ‘l’ultima porzione in un piatto comune, che nessuno prende per una forma di cortesia’, sobbrataula ‘l’ultima portata del convivio: verdure crude, lupini, mandorle, semi di zucca’, in realtà pretesto per indugi in “una conversazione che, modulandosi di intensità e di toni, si fa racconto, rievocazione di figure note e lontane, ricomposizione di memorie familiari” (come nota Antonio Prete), squariare, che vale ‘cazzeggiare’ ma non solo: è “farsi passare il tempo addosso, concedersi all’affabulazione, alla digressione, allo sconfinamento, al divagare, all’incantesimo dell’ozio” (Antonio Errico);

- circonlocuzioni che esprimono atteggiamenti tipici, preziosi frammenti di una filosofia di vita: fazza Ddiu (fatalismo), menamé (esortazione), mai pe iabbu (scongiuro e riserva), nu tte sia pe cumandu (diplomatica attenuazione), pe facce llavata (apparenza e ipocrisia).

Su questa strada si potrebbe arrivare a ricostruire il ‘comune sentire’ della civiltà salentina, o quanto meno di quella che è stata la civiltà salentina. Una bella prospettiva.

Il ricercatore pignolo lamenterà assenze e troverà motivi di insoddisfazione (le fonti e la localizzazione delle espressioni non sono mai dichiarate; i commenti ‘d’autore’ a volte sono centratissimi e accattivanti, a volte no: ad esempio è un peccato che proprio per l’espressione che dà il titolo al libro il commento finale sia il più cursorio); ma qui preferisco rilevare la gradevolezza del libro e i molti spunti che offre.

Perché non è solo il parlante salentino a trovare motivi di coinvolgimento, di interesse e di non banale riflessione. Anche il linguista. E l’antropologo.