Mia Lecomte, Autobiografie non vissute

01-03-2005

Il tempo va all'indietro, di Fabio Ciriachi


Autobiografie non vissute (Manni, 2004), benché snello con la sua sessantina di pagine, è un’opera estremamente complessa e articolata. Ce ne accorgiamo subito dalla sezione d’apertura che non è una vera sezione (non ha infatti un titolo) e i cinque testi che la compongono sono in corsivo, come è a volte il testo iniziale che fa da viatico alla lettura.
La necessità di un viatico plurale e la perentorietà con cui i primi versi evidenziano quelli che saranno i temi trattati sono una premessa quanto mai eloquente circa la natura della complessità nella quale ci stiano addentrando.
Se il primo testo (il cui incipit va citato: “Vita è quello che rimane / quando si è perduto tutto. / È il cane a tre zampe / tutte e tre dritte e forti / e una quarta strappata dall’inguine”), introducendo il concetto di mutilazione, costituisce una buona parte di quella che sarà l’identità dell’opera, a dare forma all’altra è di sicuro il tempo, col piccolo indizio della data posta alla fine di questa quasi-sezione, 2003 che, in un’opera edita a gennaio 2004, nette subito sull’avviso circa la cronologia interna all’opera.
Basta infatti girare pagina e leggere la data della seconda sezione “Metamorfosi engadinesi” (2002-2003) per capire che forse, qui, il tempo cammina all’indietro. Una scorsa all’indice e ne abbiamo conferma: “Periodo ipotetico” (2002) è la terza sezione; “Replica a soggetto” (2001-2002) la quarta; e “Litania del perduto” (1996-1997) la quinta.
Il tempo, dunque, va all’indietro ma non sappiamo perché. La risposta, come in ogni storia che si rispetti, arriverà alla fine. Non scritta nell’ultima pagina ma somma dei tanti momenti attraversati, e ottenuta per decodificazione di un tessuto testuale elaborato che non rinuncia quasi mai a mimetizzarsi, a dire nascondendosi e sviando, ad alludere piuttosto che nominare.
La lingua, dunque, con la gamma delle sue tante sperimentazioni strategiche, connota fortemente Autobiografie non vissute. È una sprimentazione particolare quella di Mia Lecomte, che ha pochi debiti con le neoavanguardie (debiti che non vanno oltre certi esiti del Volponi di Con testo a fronte, del Balestrini di Poesie pratiche, e sempre in dosi per lo più minime e con ragioni diverse da quelle dei prestatari) e deve molto a una sua esigenza di spegnere, e in un certo senso tradurre in altro, le parole che il dolore spontaneamente suggerisce. Ma per capire bene da dove nasce il bisogno di togliere ogni riconoscibilità aneddotica alla propria poesia occorre arrivare all’ultimo testo che, come la tessera chiave di un puzzle, darà un volto definitivo all’insieme.
Lungo l’impegnativo percorso testuale attraversiamo dense atmosfere segantiniane sparse nelle metamorfosi engadinesi della sezione omonima, metamorfosi che trasformano la realtà in apparenza, la geografia in storia, il qui in altrove. E ancora le nove poesie di “Periodo ipotetico” strutturate in quattro testi doppi (ciascuno col punto di vista dell’io e del tu) e un testo singolo, col punto di vista del noi, tutti volti a declinare cinque azioni (come i sensi) sostenute dai verbi guardare, annusare, toccare, prendere, e infine tacere, sorta di rituale strategia amorosa che oscilla di continuo fra danza e conflitto, fra compromesso e scontro, fra attrazione ed estraneità. Della sezione “Replica a soggetto” vorrei sottolineare l’apparente leggerezza, l’allegria ungarettiana di certi andamenti a filastrocca che spesso procedono per contrasti, per flussi fra opposti, per nuove rappresentazioni del teatro dei corpi.
A proposito di corpi, un discorso andrebbe fatto sull’immagine di copertina che nella sua ambiguità – è danza?, è amore?, è violenza? – si costituisce un po’ come nucleo simbolico dell’intera raccolta, sorta di primo testo sperimentalmente ottenuto estendendo oltre ogni limite l’ampiezza della parola fino a trasformarla fisicamente in immagine. Nell’ultima sezione, “Litania del perduto”, occorre entrare in punta di piedi. I primi cinque testi, infatti, raccontano con pudore l’agonia e la morte del poeta Dario Bellezza; gli altri sei sono come altrettante voci autonome, che stanno le une accanto alle altre senza somigliarsi troppo, e cantano quanto tocca a loro e tacciono quando canta la voce vicina, sempre riproponendo quella linfa tematica che scorre in tutta la raccolta e che non si stanca di parlarci di metamorfosi, di trasformazioni.
Infine l’ultimo testo che, senza titolo e di nuovo in corsivo, fa da clausola all’opera, una preghiera di grande pathos che è un po’ la chiave di volta; vuoi perché introduce la figura del padre (non importa se divino o terreno, importa che qui tutta l’eroica autonomia del protagonista rivela la sua fragilità, il suo manifesto bisogno di aiuto), vuoi perché risolve l’arcano del tempo che scorre a ritrose: “Padre, insegnami ad amare / solo quello che mi è dato da amare […] In questo giorno geloso / dammi la forza di avere / senza potere mai avere / e di perdonare il presente / come se ancora non fosse”.
“Perdonare il presente come se ancora non fosse”. La necessità di guardare al presente come qualcosa da cui prendere le distanze chiama direttamente in causa il dolore. Così penose devono essere state le esperienze che lo hanno causato da non poterle rappresentare che al contrario, riflesse in un’inversione cronologica che sola le fa tollerare, come lo sguardo della medusa è tollerabile purché mediato dalla lucentezza specchiante dello scudo.
La scelta di rappresentare il tempo a ritroso è una presenza di distanza dal presente in nome di un passato col quale si va maggiormente d’accordo, non perché migliore ma solo perché più lontano. L’esatto contrario della nostalgia.
Tempo a ritroso, quindi, a strategia verbale piena di rifugi ermetici, volutamente cercati in funzione di copertura per lasciar trasparire solo il senso di un avvenimento, l’impronta che questo ha lasciato sull’anima, piuttosto che il suo racconto.
Chiudendo la lettura e congedandoci dall’opera attraverso le parole di un passato lontano che la distanza rende innocuo, si può guardare il male che resta senza bisogno di ulteriori rovesciamenti.
In compagnia di ciò da cui ci siamo salvati, fedeli a un dolore che nutre comunque il mondo senza tuttavia attenuarne le migliori speranze, chiudiamo il libro con un senso di rassicurazione. La preghiera finale diventa così anche la nostra. Se la formuliamo in tanti forse saremo maggiormente ascoltati.