Mordi&Fuggi

23-08-2007

Morsi, rimorsi e rimozioni, di Carlo Infante

La taranta è un virus. È una cosa diversa da una moda. Contagia, possiede: è una piccola malattia del desiderio, quello che induce a liberarsi nel gioco della danza e di musiche che traducono anche i sentimenti popolari in alterità pop. È una buona alchimia politica e poetica che in questi ultimi anni ha fatto del Salento l’epicentro di un sisma culturale che va ben oltre i suoi confini. In ogni latitudine risuonano tamburelli per pizziche più o meno improvvisate, tali da evocare quel desiderio che induce il corpo a mettersi in gioco. Proprio com’è successo qualche settimana fa, ad Equi, nella profonda Lunigiana della più alta Toscana, dove il Movimento Unico Sud (una formazione inter-regionale di musicisti e danzatrici) ha animato le “ronde” durante il concerto di Mascarimirì (il gruppo più rappresentativo della new wave salentina) che ha concluso il progetto Taranta Lunatica.
Ma il cuore di questo fenomeno è ovviamente il Salento che in questi giorni ( per sfociare il 25 agosto nel concertone finale a Melpignano) sta arroventando le notti della Grecìa Salentina.
È il festival Notte della Taranta che da dieci anni proietta il mondo tradizionale della pizzica nell’innovazione di concertazioni musicali che vanno anche oltre il pop. Basta citare il tocco esercitato da musicisti d’eccellenza quali Zawinul dei Weather Report o Copeland dei Police.
È un “sibilo lungo” questo della taranta (per evocare un buon docu-film di Paolo Pisanelli) che invade l’immaginario contemporaneo, creando contraddizioni inevitabili, spiazzando i cultori delle tradizioni popolari ed azzardando operazioni di marketing territoriale che fanno arricciare il naso, ma che in fondo mettono in moto un principio virtuoso di gestione del “genius loci” che manca solo di buona auto-organizzazione sociale.
Eppure è in queste contraddizioni che il virus della taranta trova il suo habitat e si diffonde.
Non può più esser concepito come un patrimonio da preservare ma come qualcosa da tradurre ( e tradire) perché possa essere diffuso in un mondo che cambia.
Ad approfittare di questo habitat culturale arriva anche un prodotto letterario ottimo per una lettura estiva. È una raccolta di 16 racconti "per evadere dalla taranta", edito da Manni.
Un titolo accattivante, Mordi e Fuggi, da guerriglia editoriale.
È un oggetto che sa tanto d'esercizio di stile, proprio di quel piccolo mondo letterario che sa giocare con le parole e narrare di tutto. Si prende a pretesto il "mito" della taranta, per girarci intorno, ed echeggiare dai punti di vista più diversi, ironici o struggenti che siano, il mood salentino.
Ma non solo.
L'introduzione è di Marino Niola che con il suo tocco antropologico di buon rango centra una delle peculiarità del Salento, riconducendolo a come Ernesto De Martino (con Diego Carpitella, di cui amo rivendicare d'essere stato studente) l'ha definito una "regione dell'anima", traducendola in "terra elettiva cui non si appartiene per nascita ma per vocazione e decisione".
È questo il punto cardine del ragionamento sul virus della taranta, anche se Niola, sbrigativamente, nelle ultime righe della sua bella introduzione, liquida il fenomeno come qualcosa di "trasformato in bene immateriale, in agriturismo del popolare, in prodotto glocal".
Incredibile: sembrano suonare negativi gli aspetti che credo vadano rilevati come i più positivi di questo straordinario fenomeno di contagio culturale.
Eppure è un dato reale: questa disparità d'interpretazione è il solco su cui viaggiano le molteplici contraddizioni che gonfiano la bolla immaginaria intorno a questo fenomeno pop e popolare insieme.
Per quanto riguarda i racconti: leggendoli speravo di trovare nella letteratura di maniera qualche intuizione da rilanciare ma sono veramente pochi quelli che hanno lasciato il segno.
Sono tanti, sedici, come gli autori che è più che opportuno citare: Cosimo Argentina, Andrea Bajani, Giovanna Bandini, Giosuè Calaciura, Antonella Cilento, Carlo D’Amicis, Teresa De Sio, Omar Di Monopoli, Elisabetta Liguori, Carlo Lucarelli, Gianluca Morozzi, Antonio Pascale, Aurelio Picca, Laura Pugno, Livio Romano, Grazia Verasani.
Tra le 188 pagine spiccano quelle caustiche e disincantate di Cosimo Argentina che spara il machismo di un ragazzo tarantino talmente annoiato da cogliere solo le grazie sessuali della sua bella salentina in preda all’ebbrezza della taranta. È talmente snob e sfigato questo ragazzo da essere credibile: rientra in pieno nel clichè di chi rigetta tutto questo fenomeno con l’arroganza dell’ignoranza, compresa quella di quegli splendidi intellettuali che non tollerano il tradimento della tradizione. Il racconto è tagliente nelle sentenze che fanno riflettere quando liquida tutto il “Salento Pride” (l’affermazione non è sua) come un “bazar cosmico” in cui “si mettono in mostra gli affetti e le tradizioni vendute al miglior offerente”. Ma poi lo ammette lui stesso, è solo l’invidia
di un tarantino annebbiato dai “fumi dell’acciaio e dei gas di scarico”.
Il cinismo sfumato è uno dei caratteri di questa raccolta, come nella cronaca “marziana” di Livio Romano inviato “per caso” nella kermesse della Notte della Taranta. A riequilibrare il tutto emerge il pathos di Teresa De Sio che interpreta la “terra del rimorso” come luogo della rimozione di tutti quei delitti sessuali subiti da donne rese “tarantate” solo per ipocrisia. Tirando fuori verità che oggi sono solo un’eco lontana e che non c’entrano più nulla con un fenomeno che mette in scena la sua contraddizione vitalistica.