Paolo Volponi, Discorsi parlamentari

21-02-2014

Un monito e un incoraggiamento, di Eugenio Cannata

 
 
L’antologia di Discorsi Parlamentari di Paolo Volponi pubblicata recentemente da Manni editore è un’opera dalle molte facce, poiché rappresenta una raccolta di interventi che l’intellettuale urbinate tenne a proposito di svariati disegni di legge nel corso della sua breve esperienza da senatore. Dunque m’è d’obbligo premettere che mi è stato impossibile, data la vastità e la varietà, trattare anche solo superficialmente la totalità degli interventi di Volponi, sebbene tutti – in forme e modi diversi – rappresentino, a più di vent’anni di distanza, un severo monito per il presente e un incoraggiamento per il futuro.
Nonostante la già accennata varietà dei temi, si può dire che il fil rouge che percorre e intreccia tra loro tutti i Discorsi e che, del resto, ha contraddistinto l’esperienza intellettuale dello scrittore urbinate, sia lo spassionato amore nei confronti della Repubblica nata dalla Resistenza, che, tuttavia, si va puntualmente a scontrare con la disincantata consapevolezza che il Parlamento rappresenti “il più metafisico e il più lontano degli spazi”.
È proprio questa una delle macrotematiche che ritornano periodicamente nella maggior parte dei suoi interventi, come una sorta di invettiva velenosa e retoricamente molto efficace nei confronti del Governo che, imponendo il voto di fiducia sulla discussione dei disegni di legge, “strangola il dibattito parlamentare”, “il cuore pulsante della democrazia”.
Per descrivere i rapporti tra Governo e Parlamento, Volponi ricorre a due metafore molto efficaci, che rivelano una volta di più la sua distanza dal linguaggio fumoso e tecnicistico della politica e, di conseguenza, la sua identità di scrittore impegnato nell’attività politica.
Nel primo discorso tenuto da Volponi in Senato il 17 marzo 1984, egli fornisce una lettura in chiave psicanalitica della determinazione del Governo Craxi a far approvare il cosiddetto “Decreto di San Valentino”, che cancellava le tutele rivolte ai salari dei lavoratori rispetto all’aumento dell’inflazione. Egli paragona il Governo ad un “ossessivo-compulsivo”, proprio come “quelli che soffrono appunto di allucinazioni o di fissazioni”, e il decreto n. 10 rappresenta dunque il “sogno di onnipotenza che è proprio quello tipico di chi non riesce a risolvere le cose reali e resta nella sfera dell’immaginazione”.
La seconda metafora, ancor più efficace e politicamente provocatoria, è intimamente legata all’alienazione sociologica e clinica dell’uomo nella civiltà industriale che rappresenta l’elemento centrale dei suoi romanzi principali – Memoriale, Corporale e La macchina mondiale. Volponi afferma di far parte di un “Parlamento taylorizzato”, ovvero un Parlamento-fabbrica, in cui non c’è alcuno spazio per la dialettica democratica e i senatori-operai lavorano sul decreto-pezzo in maniera del tutto alienata, considerandolo come “una entità esterna alla loro stessa capacità critica e di azione”.
Al di là del contenuto dei singoli interventi, ciò che più colpisce è che, nonostante l’acume e la forza retorica delle sue affermazioni e delle sue argomentazioni, molto spesso farcite di citazioni letterarie e filosofiche, gli interventi di Volponi non hanno nessuna efficacia concreta, a dimostrazione del fatto che egli parla un linguaggio che la politica non può (o non vuole) capire, non solo in quanto scrittore, ma anche in quanto cittadino e a riprova del baratro – sempre tremendamente attuale – che separa il legislatore dalla società.