Piero Rossi, Cape guastate

15-09-2010

Cape guastate, ex detenuti da una cooperativa a un romanzo, di Pietro Andrea Annicelli

«C’era quello che aveva tanti di quei proiettili in corpo che nessuno si sarebbe immaginato di vederlo resuscitare nella camera ardente dell’obitorio, dopo che il presunto cadavere era stato già bell’e acconciato per la sepoltura, prefiche e compiangimento compresi. C’era la signora il cui marito era stato sparato o meglio era stato fatto sparare – così ci si esprime in quell’ambiente – dalla stessa persona al cui fianco doveva lavorare nei cantieri della cooperativa. C’era quello che non parlava una parola d’italiano e che quando gesticolava sembrava fendesse l’aria a colpi di machete, con delle manone che se ti sfioravano per sbaglio, durante la gesticolazione, ti portavano via la testa dal collo. C’era quello che parlava con le formiche e quello che chiedeva di essere punito ogni volta che si comportava male sul lavoro. Quello che stava sempre con la canna accesa in bocca». Così comincia Cape guastate, scritto da Piero Rossi per Manni. Ovvero «un romanzo come resoconto verosimile di un’iniziativa di inclusione sociale attraverso il lavoro di ex detenuti e dei loro familiari», come recita il sottotitolo. Rossi, barese, è presidente di Confcooperative per la provincia di Bari oltre che avvocato specialista in diritto minorile e criminologo cinico. Tra i fondatori della cooperativa sociale per ex detenuti Vita Nuova, nel libro condensa episodi di vita vissuta traslati in narrativa diretta, brillante, umanissima, on the road.
In un quartiere dove, si dice, la scuola è per i fessi e il lavoro pure, don Mimino Belviso, parroco, si batte con l’ostinazione dei giusti per organizzare una cooperativa di pulizie di ex carcerati credendo nel lavoro come senso e riscatto sociale. La partenza: «A uno che non ci sta con la testa non puoi chiedere di adeguare le sue capacità alle mansioni previste per lo svolgimento del lavoro che fanno tutti quanti gli altri. Lo metti lì e speri che, con l’aiuto degli altri, in qualche modo se la cavi. Intanto, però, come si dice, è politically correct non rinunciare alla sua presenza, accontentandovi di una capacità produttiva residuale: la funzione di una cooperativa sociale è quella». L’arrivo: «La cooperativa resisteva da quindici anni ormai e, pur tra mille traversie, aveva raggiunto l’obiettivo di stabilizzare, come suol dirsi, non meno di trenta soci lavoratori. Voleva dire che a trenta famiglie, cui appartenevano persone che difficilmente avrebbero colto l’occasione di lavorare, poiché nessuno gliela avrebbe offerta, veniva garantito il minimo vitale».