Piero Rossi, Cape guastate

30-11-2010

La Puglia che pubblica, di Filippo De Bellis

Cape guastate
(Manni Editori, pp. 224 € 18,00) è il romanzo d’esordio di Piero Rossi. Avvocato, criminologo, già giudice onorario minorile, ora anche presidente provinciale di Confcooperative, ma soprattutto presidente della cooperativa di ex detenuti Vita Nuova. Il libro racconta l’avventura della costituzione di una cooperativa per l’inserimento lavorativo di ex detenuti e la ricerca del lavoro per renderla produttiva, ambientata nella periferia di una città del sud. Un romanzo? Così è scritto. Io direi che è altro e anche di più che altro. Un saggio romanzato? Anche ma non solo. Letteratura sociale? Probabilmente anche questo (come probabilmente è letteratura sociale – con  rispetto scrivendo – I promessi sposi). Ma, quindi, anche un romanzo storico, di una piccola, ma non minima, seppur circoscritta e quasi intima, così come pubblica, storia. Una storia che tutti potremmo ri/conoscere e nessuno sembra sapere. Una storia a cui puoi essere indifferente se riesci almeno a tenertene alla larga; di cui scopri comunque di esserne parte se solo alzi la testa e presti attenzione all’umanità che ti fluisce accanto, se abbassi lo sguardo su una urbanistica umana che non arriva mai a quadrare i conti.
Con leggerezza e rispetto si racconta una storia fatta di episodi che presi uno per uno sono, meramente, grigia quotidianità, consueta miseria, ordinaria violenza, quotidiano dramma, solita emarginazione ma anche inaspettata tenerezza, feroce sarcasmo e sottile ironia… e così via andando. Il linguaggio usato è una delle cose più originali di questo libro, con il riuscito mix di dialetto, parolacce (tante ma direi necessarie all’ambientazione ‘verista’) e tecnicismi, da operatore sociale,quasi leziosi. Insomma, è accattivante il dialetto, le cui note di traduzione si tramutano spesso – involontariamente? – in esilaranti gag fonetiche, accanto al linguaggio tecnicizzante di chi di mestiere si cimenta con la progettazione sociale e le sue burocrazie. Basta a rendere l’idea uno dei titoli dei capitoli in cui è diviso il libro «Capitolo 5. A ci so’ ji e ci si’ ttu (come dire: relazioni sindacali)». In più Rossi, che pudicamente si  mimetizza, ma senza troppo nascondersi, dentro le fattezze dell’avvocato Devita,  ardisce intercalare nel suo romanzo, fra una tirata in dialetto e una parolaccia, locuzioni come «riposo post prandiale -o- ai prodromi della senescenza -per non dire di- prossemica, reificazione, assertività un po’ parossistica, obliato da tutti gli astanti...».
Ma è falso stridore, direi anzi attrito delicato che attrae, coinvolge, trascina in una sottile complicità linee accuratamente rette che attraversano macchie di colore e paesaggi e strane geometrie, in atmosfere come di Kandisky o di Mirò, quale sola può essere la raccontata, semplice e multiforme, umanità di una periferia sudista.
Si arriva facilmente all’epilogo (…e mica poteva chiamarsi finale) e controfinale perché la lettura scorre fluida e piacevole, come una passeggiata in bicicletta su un territorio lievemente ondulato, dove si alterna la pedalata per superare la piccola asperità, ma, più spesso, si va in leggera discesa, parafrasando il cantautore, così il lettore stanco si riposa e ha il tempo di guardare intorno per cogliere tutte le sfumature che un raccontare primaverile come questo offre. Ti sembrerà di esserti appena alzato da uno degli sgabelli del bar delle Aquile della notte di Edward Hopper, di essere uscito fuori nella notte tiepida della periferia, magari sul lungomare della città di Rossi, tratteggiata e mai nominata, ad accenderti una sigaretta con l’avvocato Devita a dirsi vabbè questa è andata, raccontiamoci la prossima che da dire ce n’è.