Rossano Astremo, Con gli occhi al cielo aspetto la neve

29-07-2013

Mi chiedi a che serve poesia, di Paola Volante

Il grande merito di Rossano Astremo, nel suo ultimo libro “Con gli occhi al cielo aspetto la neve”,  è di aver reso fruibile e accessibile a chi come me appartiene ad una diversa generazione e segue i suoi lavori da tempo, uno scrittore complesso e “nervoso”  come Antonio Verri. Perché la difficoltà di leggere Verri è tanta, soprattutto se non si è guidati adeguatamente. E Astremo nella sua narrazione ci accompagna in questo viaggio, che non è solo biografico ma nascostamente  autobiografico. Tanto evidente da notarlo  soprattutto nell' ultimo capitolo del libro,  dove Astremo riconosce nello scrittore di Caprarica una sorta di guida, di alter ego, di maestro,  affascinato dalla sua voracità  linguistica e umana.

Il fulcro del romanzo è tutto qui secondo me. Una doppia lettura: una in superficie dove viene raccontata attraverso l'approfondita documentazione fatta, la vita del Verri; l'altra in profondità dove si nasconde uno specchio dove Astremo si riconosce.

Rossano e Antonio accomunati da un “debutto” nel mondo della poesia molto simile,  hanno iniziato autoproducendo fogli di poesia, entrambi  hanno amato il mondo delle parole, entrambi hanno un rispetto profondo nei confronti del verso tale da  venerarlo, da ricercarlo, da adorarlo e infine da produrlo. Solo tempi diversi, ma la ricerca e la qualità hanno la stessa matrice.

Verri andrebbe (ri)scoperto e amato da molti più lettori di quanti in realtà ne abbia avuto o ne abbia ora. Il lavoro fatto da Astremo è rinchiuso tutto nella tenace volontà di farci scoprire e amare questo  scrittore salentino esattamente come lo ha amato e scoperto lui.

Prova ne è stato l'incontro tenutosi al Palazzo della Cultura a Galatina qualche settimana fa, organizzato dalla libreria Fiordilibro, dove i pochi presenti  hanno evidenziato  la  semiclandestinità culturale a cui è relegato lo scrittore. Il tentativo di (ri)trovarlo ora ci è stato concesso, sta a noi non abbandonarlo, valorizzandolo e approfondendolo. Anche al mondo dell'editoria però va rivolto un appello, perché non si perda il lavoro di uno  scrittore che ha dato tanto,  per quanto in maniera frammentaria, a cui è stato riconosciuto poco o nulla proprio da chi lo doveva esaltare e coccolare.

Il Salento, e non solo,  ha un debito forte  nei  confronti di Antonio Verri, da non dimenticare mentre leggiamo la sua storia, la sua vita e i suoi versi. Un debito che va colmato quanto prima.

Antonio Verri dice al suo caro amico Donato Greco poco prima di partire per Bologna riferendosi alla vita del Salento: “ Si passa il giorno con falsità, ipocrisia e sole che scotta”.
Pensi che ad oggi questo giudizio siano ancora valido? L’arte in questo Salento continua ad avere quel ruolo marginale e mummificante da cui scappava Verri?
“Verri stette a Bologna e poi in Svizzera per pochi mesi, attorno alla metà degli anni ’70.   Comprese, poi, subito che il suo lavoro di militanza culturale poteva essere svolto pienamente solo nella sua terra. Amava la sua terra. Quello che non gli andava a genio erano i suoi conterranei e non ha mai fatto mistero di ciò. Suo obiettivo era, però, fare del Salento, geograficamente periferico, una roccaforte della cultura italiana e non solo. Ci riuscì solo in parte, ma spese gli anni migliori della sua vita nel tentativo di realizzare questo suo progetto. Una decina di anni fa Goffredo Fofi scrisse un lungo e appassionato articolo sul fermento culturale pugliese, da lui chiamata Nouvelle Vague Pugliese, in cui erano ritratti in una foto di gruppo oltre un centinaio tra registi, scrittori, attori e artisti. Io credo che ci sia una sottile linea che unisce la progettualità culturale di Verri, il suo dare vita a relazioni tra creativi della sua terra, il suo imbattersi in ambiziosi ed innovativi progetti editoriale ed artistici partendo sempre dalla sua Caprarica e l’esplosione artistica avuta dal Salento e dalla Puglia agli inizi del Duemila”.

Quanta militanza c’era nell’opera e nell’uomo Verri?
Verri per circa quindici anni della sua vita, dal 1977, l’anno di nascita della rivista “Caffè Greco”, al 1993, anno della sua morte, ha scritto libri, curato ed editato riviste, curato collane letterarie, scoperto decine di nuovi talenti ai quali ha dato la possibilità, grazie alla sua casa editrice Pensionante de’Saraceni di avere voce (basti pensare ad Antonio Errico, Carlo Alberto Augieri, Fabio Tolledi, Salvatore Toma, solo per citare i primi che mi vengono in mente). In Verri la militanza era scolpita a lettere cubitali nella sua idea di vita. Ha sacrificato tutto ad essa.

Verri nel periodo del Caffe Greco scrive così riferendosi alla sua rivista  “.. e comunque fuori  da ogni orbita editoriale…”. Che rapporto aveva con l’accademico mondo culturale salentino?
Se ti riferisci nello specifico al mondo che gravitava attorno all’Università, direi che fin dall’inizio ha avuto un solo sostenitore, che è stato il professore Ennio Bonea. Per il resto l’accademia lo ha sempre visto con sospetto. C’era chi lo definiva con sottile ironia “lo sperimentatore”, non comprendendone la portata innovativa della sua scrittura, preso come era a studiare solo le carte di Girolamo Comi.

Nel  tuo libro  edito dalla casa editrice Manni viene fuori il rapporto contrastante e polemico che il Verri ebbe  con gli stessi editori Anna Grazia D’Oria e Piero Manni durante gli anni del suo produrre letterario. Come leggi questa relazione?
Verri deve molto ai Manni. In un periodo per lui critico, la collaborazione con Piero e Anna Grazia fu fondamentale per ridare vigore alla rivista Pensionante de’ Saraceni. Ad un certo punto, poi, nella seconda metà del 1983, le strade tra Verri e i Manni si divisero, perché nella sostanza c’era una visione differente dell’agire culturale. Verri era un irrequieto, famelico, iperproduttivo, mai domo. I Manni erano e sono tuttora costruttori misurati di idee e cultura.

Perché pensi che Verri sia un autore postmoderno?
Verri è autore perfettamente inquadrato nel filone del postmodernismo letterario italiano, quello visto con sospetto dalla nostra critica accademica, che ha avuto negli anni ottanta i suoi elementi migliori, e Verri è autore anni ottanta, tra cui Umberto Eco, l’ultimo Italo Calvino, Antonio Tabucchi, Pier Vittorio Tondelli e Vincenzo Consolo (autore amato oltremodo dallo scrittore di Caprarica). Quando si parla di letteratura postmoderna si fa riferimento a quella letteratura che fa della citazione, dei giochi intertestuali, del pastiche linguistico e stilistico i suoi elementi fondanti, ossia a quella letteratura che considera il patrimonio letterario e culturale in genere patrimonio al quale attingere senza remore. Verri è autore postmoderno perché la sua scrittura più dirompente, quella per intenderci che parte con La Betissa (1987), per poi continuare con I trofei della città di Guisnes (1988), Il naviglio innocente (1990), e conclusasi con il postumo Bucherer l’orologiaio (1995), dialoga continuamente con gli autori amati dallo scrittore di Caprarica, a partire da Vittorio Bodini, Salvatore Toma e il pittore Edoardo De Candia, sino ad arrivare ad Elio Vittorini, Carlo Emilio Gadda, Jack Kerouac, Allen Ginsberg, Samuel Beckett, Walter Benjamin, John Cage, e soprattutto i “suoi” James Joyce e Raymond Queneau (solo per rimanere nell’ambito delle citazioni, ricordiamo che Stefan è il protagonista di quasi tutti i testi di Verri e Stefan è personaggio joyciano dell’Ulisse, o ancora Ulipo è il nome del gatto presente ne Il naviglio innocente e Oulipò è l’officina di letteratura potenziale fondata da Queneau, ma si continuerà in seguito). Senza la conoscenza e l’amore per questi autori, Queneau in primis, Verri non avrebbe raggiunto gli esiti brillanti, poetici ed originali della sua scrittura e non avrebbe osato sfidare le leggi della letteratura sognando di scrivere il libro infinito, il Declaro appunto, il suo mondo fatto di parole.

Quale eredità ci lascia Verri?
Verri ci ha lasciato un patrimonio prezioso di insegnamenti e di parole, un patrimonio dal valore inestimabile, che merita uno studio ed un’analisi attenta e costante, affinché la sua opera non cada nell’oblio.