Sergio D'Amaro, Terra dei passati destini

01-09-2005

La fiaba al rovescio, di Daniele Maria Pegorari


È apparsa nella bella ed eclettica Collana ‘Pretesti’ dell’editore Manni, diretta da Anna Grazia D’Oria, la nuova edizione ampliata di una raccolta di brevi racconti uscita nel 2000 col titolo Gargan River, che rinviava già nel titolo all’ipertesto nordamericano dell’Antologia di Spoon River, della quale proponeva una sorta di versione pugliese: sostituito il vecchio titolo con uno ben più poetico, Sergio D’Amaro dà voce ai defunti di piccoli cimiteri di campagna che tornano a chiedere udienza per raccontare le loro tristi storie, esemplari della sofferenza popolare in tempi di guerra, pregiudizi, ignoranza, rigido classismo ed emigrazione. Diciannove sono in tutto queste “testimonianze” dall’aldilà, costanti per lunghezza (in media cinque-sei pagine) e per struttura (invariabilmente i racconti iniziano con l’autopresentazione del nome, del numero degli anni di vita terrena, dei luoghi in cui essa si è svolta e del mestiere svolto: quasi una lettura “ragionata” della lapide, che infatti viene in genere anche descritta nelle prime righe di ciascun racconto); identico, poi, è anche il timbro linguistico-stilistico usato, un italiano regionale fortemente caratterizzato da dialettalismi (la maggior parte dei quali l’autore ricapitola in un Glossario finale), che peraltro sono comuni a gran parte delle regioni meridionali italiane, consentendo una facile identificazione anche in un lettore non garganico e non pugliese.
In questo aspetto del libro mi sembra che risieda la più felice invenzione di D’Amaro, che mette a frutto la sua notevole conoscenza della demologia otto-novecentesca, del meridionalismo e della letteratura dell’emigrazione, temi tutti ai quali ha dedicato anche numerosi interventi di organizzazione culturale: così la sedimentazione linguistica delle tradizioni, delle mentalità e dell’antropologia religiosa garganica (e meridionale) si ritrova magnificamente nello stile parlato di questi personaggi, tredici dei quali sono uomini e solo sei donne, tutte collocate nella parte finale del volume, come a riservare a questi ultimi autoritratti la parte culminante di una storia popolare fatta di vittime e di antieroi, eppure capaci di far emergere dai loro racconti virtù indimenticabili di sopportazione e di tenerezza. Le donne, d’altra parte, sono protagoniste, in filigrana di molti dei racconti maschili, in qualità di mamme apprensive, mogli arrendevoli, amanti appassionate e comari pettegole, a rammentare permanentemente la linea della trasmissione della vita e i suoi flussi biologici in sintonia con i ritmi dei campi e degli estri animali. Con la mente rivolta alla migliore tradizione narrativa del Sud Italia (Verga, Silone, Strati, Nigro, Bufalino, Domenico Rea e, certo, l’amatissimo Carlo Levi, per fare solo i nomi più facili), D’Amaro, che in poesia ha dimostrato una certa attitudine “cinematografica” a riversare la memoria di una generazione nettamente post-rurale e rockettara, ricostruisce una storia sociale dal ‘basso’, azzerando la distanza del narratore e collocando il punto di vista esattamente al centro degli eventi di una cronaca minuta, fatta di destini che sembrano segnati già al momento stesso della nascita.
Se le donne sembrano fissate prevalentemente nella condizione coatta della maternità, senza altri orizzonti, i numerosi personaggi maschili hanno in comune la precoce sottrazione ai percorsi scolastici (con la sola eccezione di Padre Girolamo, il teologo francescano che chiude la carrellata maschile, così come la benestante ricamatrice Figlia di don Costanzo Mascia è l’ultima «voce» delle donne e di tutto il libro): così prende avvio l’iniziazione al lavoro (talvolta proprio con elementi di ritualità e di formazione simbolica, come nel caso del carbonaro Graziano) e l’aspra avventura della sopravvivenza, solitamente intrapresa con l’entusiasmo della scoperta di una vita “da grandi” e poi amaramente conosciuta nella sua realtà fatta di privazioni, emarginazioni, malattie professionali, lotte sindacali ed emigrazione. Ogni breve racconto è l’embrione di una fiaba dallo sviluppo rovesciato, dalla speranza di riscatto alla rassegnazione e alla sconfitta, dalla ricerca della salute alla morte, e di questo capovolgimento delle sorti progressive della Storia è metafora e sapiente segnale strutturale proprio il ricorso al racconto svolto a partire dalla fine, da una morte che (come voleva Pasolini), nei modi e nei luoghi in cui si svolge, nelle parole che l’accompagnano, sola dà senso e rappresentabilità agli episodi turbinati di una vita, così come il montaggio filmico fa con i fotogrammi.