I bruchi

I bruchi

sottotitolo
ovvero Il ragazzo in fondo al mare
copertina
anno
2008
Collana
Categoria
pagine
160
isbn
978-88-6266-099-0
15,20 €
Titolo
I bruchi
Prezzo
16,00 €
ISBN
978-88-6266-099-0
nota
Introduzione di Donato Valli
Questo romanzo può essere letto come una satira del regime fascista e del militarismo, in bilico tra reale e surreale.
Scrive nell’Introduzione Donato Valli: “È come se il pensiero, trasformatosi in scrittura, designasse una fedeltà troppo umana per poter invadere il guscio del surreale. Così il fatto rimane fatto in se stesso, puro nella sua essenzialità, rinsaldato da un tale impegno di fedeltà da sorpassare l’amore della scrittura in sé e traboccare nel piacevole eden d’una sognata surrealtà.”
Giovanni Bernardini, nato a Pescara, dal dopoguerra opera nel Salento, dove vive a Monteroni di Lecce.
Ha pubblicato narrativa, poesia, saggistica e, con Manni, le prose Il bivio e le parole (1989) e i volumi di versi Emblema e metafora (1988) e Nel mistero del tempo (2005).


INCIPIT


Nacqui un venerdì 13 ore 13. Si accese subito una dotta discettazione in famiglia e tra gli amici della famiglia se io sarei stato fortunato o no, stante la confluenza del venerdì e di ben due 13 e chi sosteneva che i 13 annullano l’influsso malefico del venerdì e chi invece che i 13 si elidono a vicenda abbandonandomi in balìa del venerdì e chi ancora che fra i vari dati convergenti si crea un certo equilibrio, sia pure non del tutto stabile, per cui avrei vissuto una vita che in fondo potevo accontentarmi. Nella foga della disputa qualcuno prese perfino cappello lasciando in tronco la questione che per un pezzo continuò a pendere.
Nacqui con notevole fatica. Probabilmente ciò dipese dal fatto che, prima di darmi alla luce, mia madre si divorò un enorme piatto di pastasciutta il quale era stato preceduto, durante i nove mesi della gravidanza, da piatti consimili. Mia madre aveva una paura fottuta dell’evento e vergogna di dover scoprire il suo corpo. Allora si nascondeva negli angoli bui della casa portandosi dietro la pastasciutta e piangeva e mangiava. La raggiungeva talora la paletta di ferro scagliata dalla nonna con una certa delicatezza naturalmente date le condizioni della figlia, che poi si verificarono solo una volta e mezzo. Fuori di quelle circostanze la nonna usava più liberamente la paletta. Ma sarebbe sbagliato vederla come una specie di megera; al contrario era donna mite, rotonda nella persona, dalla pelle bianchissima e una crocchia di capelli neri in cima alla testa, la quale tollerava che io bambino cavalcassi la sua panciona quando nei pomeriggi assolati si stendeva nel gran letto d’ottone.
Le abbondanti cibarie ingoiate da mia madre devono aver avuto, come dicevo, parte non indifferente a fare di me un feto di rispettabili dimensioni e peso, tanto che all’uscita stavo per infilare la porta dei trapassati. Salvifici risultarono gli scossoni inflittimi dalle mani energiche della levatrice che, nudo e cianotico, mi reggevano a testa in giù fintanto non mi resi conto che era il caso di protestare epperò scoppiai in pianto. Decisamente di tutta la faccenda ho un ricordo poco piacevole, anche se alquanto vago, acuito ogniqualvolta incontravo, fino a vent’anni fa, la mia salvatrice piena di efelidi e peli rossi sul sellino della bicicletta malconcio sotto il suo culone affannata a raggiungere quelle case dove ci fosse da sgonfiare un ventre.
Quando fui ripulito ben bene, strofinato asciugato cosparso di borotalco e fasciato, tutti sorridevano a mia madre e a me complimentandosi di questo bambino bellissimo così alto, cioè così lungo, che il padre che l’ha generato deve essere certamente un gigante, ritenendosi escludibile qualsiasi rapporto con la breve statura materna. Invece, se sotto lo stimolo delle pastasciutte avevo preso quella bella rincorsa nel crescere, in seguito mi fermai di botto all’altezza appena superiore ad un nano mentre il travaglio della nascita mi aveva lasciato in retaggio un occhio che a forza di voler guardare obliquamente il mondo finì col trovarsi spiazzato sia rispetto al mondo sia rispetto al suo gemello.
Mio padre non ebbe la ventura d’accogliere il mio arrivo perché stava trafficando non so che cosa dalle parti di una città portuale del Nord, reduce da lunghe guerre guerreggiate, quasi sempre però nelle retrovie e sempre in reparti di Sussistenza. Mandò un collega il quale, con l’augurio e il bacio paterno, fu latore anche del mio nome: Anselmo come il padre di mio padre, ovviamente.
Qui si aprì un’altra interminabile discussione circa l’opportunità o meno di affibbiarmi quel nome. Sopra tutti era contrario mio nonno materno, non punto da invidia o altro ignobile sentimento verso il consuocero peraltro deceduto, bensì fastidito da un’associazione letteraria di immagini che a me fantolino avvolto in fasce finiva col sovrapporre la figura dello “scaltro Anselmo” crepato di sete in Terrasanta a causa d’un minuscolo buco. Nel dibattito volle intervenire anche mio zio un po’ scemo sostenendo che quella del nonno gli pareva una identificazione a cui la reale realtà si rifiutava. Ma poiché sopra al tavolo troneggiava un portafrutta colmo di noci e fichisecchi e la destra dello zio ogni tanto si allungava a prendere un ficosecco la nonna gli menò una palettata sulla mano e lo zio smise immediatamente di parlare ma non di tentare cauti approcci ai fichisecchi.
La diatriba si protrasse per quattro giorni coinvolgendo fratelli, sorelle e cugini fino al terzo grado. Nel quinto giorno giunse mio padre che fece una sfuriata urlando che il secondogenito lo chiamassero come cacchio volevano, ma il primo doveva essere Anselmo. Non fu registrata nessuna reazione violenta né presa di posizione di carattere puramente morale. Si udì soltanto lo zio un po’ scemo che a voce alta operava una significativa variante: «Nomina non sunt consequentia rerum!»
Sulla mia formazione culturale credo abbiano influito quasi in ugual misura le rugumazioni di fichisecchi fatte in compagnia dello zio e la ricca biblioteca di mio nonno materno dalla quale cominciai ad attingere appena in età di cinque-sei anni. Dovevo però cozzare nella gelosa cura con cui il nonno custodiva i suoi libri tanto più quando si accorse di certa pericolosa inclinazione che mi spingeva a indugiare sugli strumenti di tortura raffigurati in una pagina del vecchio Melzi oppure sulle cupe illustrazioni del Dorè all’Inferno dantesco o sulla Beatrice Cenci illustrata non so da chi. Una volta il nonno mi tolse il libro del Guerrazzi proprio mentre mi stavo masturbando la vista davanti alla decapitazione di Beatrice. Mi vendicai dopo poco vedendo il nonno in mutande affacciato alla finestra, mi avvicinai di soppiatto e gli detti un feroce pizzicotto sul sedere, scappai in strada e gli facevo sberleffi sapendo che avrebbe impiegato tempo per infilarsi i pantaloni ed essere in grado d’inseguirmi. Alla fine gli gridai pure cacca, intendendo dargli dello stronzo, vocabolo di origine longobarda non ancora abbastanza diffuso nell’eloquio comune, tantomeno acquisito nel mio modestissimo lessico infantile. Fu l’unica circostanza in cui la nonna accorsa mi scagliò addosso la paletta.