La forma dell’Italia

La forma dell’Italia

sottotitolo
Poema da compiere
copertina
anno
2009
Collana
Categoria
pagine
80
isbn
978-88-6266-138-6
9,50 €
Titolo
La forma dell’Italia
Prezzo
10,00 €
ISBN
978-88-6266-138-6
nota
Prefazione di Francesco Muzzioli
Questi versi sono un processo, un viaggio e una visione…
È un «poema da compiere»… non finito, non finibile, come l’orrore che viviamo.
Il filo principale è quello del percorrimento della penisola, il compendio storico-geografico della catastrofe definitiva…
Non si può aver compreso il testo e non fare nulla.
La poesia ci chiama in causa, il testo ci cita come testi.
Francesco Muzzioli
Mario Lunetta vive ed opera a Roma. Poeta, narratore, drammaturgo, saggista, fin dagli anni Sessanta è stato fra i protagonisti del dibattito culturale in Italia. I suoi libri, oltre cinquanta, sono tradotti in Europa e negli Stati Uniti.
 
Nota dell’autore 
 
È un poema (o magari un work in progress che potrà forse avere un’estensione ulteriore ancora non quantificabile dall’autore) nel quale si discorre e si disputa della penisola mediterranea chiamata Italia in modi discordi da ogni consecutio narrativa, dentro la narratività particolare e speciosa del testo. Piuttosto, si direbbe, in modi desultori, bruscamente antilirici e invece duramente ragionativi e paradossali. La strategia è quella di un flusso di sangue (presente e memoriale) intasato da emboli decisamente anarchici, che si innestano l’uno nell’altro per via di frizione, di contrasto, di collasso anche – secondo un gioco dialettico che entra senza tregua in una lunga sequenza di quadri dissestati, accatastati, devastati, nell’oggi e nel pregresso.
                                                                                         
I frammenti, o meglio le schegge che ne compongono il corpo continuamente decostruito, non sono rapportabili all’ideologia del “frammento” di timbro simbolista, ma a un’ottica straniata di chiave materialistica. Vi affiora, secondo un deciso profilo de-narrativo, la fisionomia dell’Italia nelle sue componenti “di maniera” (fascino del paesaggio, bellezze artistiche, clima, gastronomia) e nelle sue componenti meno gradevoli (antropologia, economia, politica, religione), tutte come frullate in uno shaker forsennato di kitsch e di egoistica irresponsabilità, nel tentativo di costruire un avventato viaggio allegorico nel magma in cui viviamo e che vive di noi, che riesca in qualche misura a proporre interrogazioni non pacificate al lettore e allo stesso autore.
 
La lingua, allora, non può che essere violentemente mescidata – tra colloquialità sguincia, modi di dire stranieri, tranches di dialetti italiani, argot e slang. Un plurilinguismo che si muove in una gestualità sprezzante e amara, all’inseguimento di una forma dell’Italia irrimediabilmente sfuggente, scivolosa, senza posa falsificata dalla maggior parte degli Addetti Ai Lavori Civili, cioè a dire dei Gestori Dei Poteri Inafferrabili (da quello del governo degli uomini e delle cose a quello della cultura), e senza posa deformata.
 
Un testo, questo poema, improntato a un uso disancorato della ratio e a un rigetto convinto della corda patetico-emozionale in quanto soluzione di ogni nodo del collettivo e dell’individuale. Un testo, insomma, di poesia politica, e meglio sarebbe dire di poesia dialettica che non ha paura di dire il proprio nome, in giorni in cui non si fa che appellarsi alle ragioni del cuore e alle pulsioni della propria individualità sovrana, beata lei.

PRIMI VERSI

Viaggiando, ripeteva bofonchiando mio nonno vinattiere
che taroccava le damigiane di rosso con acqua di Valdichiana  
– viaggiando si imparano molte cose sceme o intelligenti,
circostanze permettendo, anche sotto la pioggia, anche
senza spendere troppo, anche da seduti;
                    e si permette di aggiungere ora e qui
il sottoscritto nipote benemerito, sorseggiando
etiam et eziandio a futura memoria, con gran gusto,
un bicchiere di vino Nobile:
                    – magari anche con l’occhio
strabico, da cultori di scritture cuneiformi,
                    cervello soffritto, vista debole.
                    (Certo molte altre se ne dimenticano, mica siamo
dei computer, ringraziando diopadre).
                    Ma non mangiamoci le mani, per tanto poco, todavía.                   
                   
                    Il corpo, poi, a volerne parlare fuori dai denti, è
un viaggio di per sé, un deposito mixer
sufficientemente attendibile di quelle che si imparano
e di quelle che si dimenticano (di cose e di fantàsime).
                    Forse, e senza forse, lo è anche più
di quel pesce catastrofico che nuota nel suo oceano di nulla
(gremitissimo, costipato, carico, zeppo all’inverosimile)
                    e che chiamano mente: id est
– come lemma denuncia, sito della menzogna, spaccio della mèntula
che non s’addorme. (Pur sapendo, ovviamente, che
ogni cellula vivente, non solo quelle che si barcamenano
nell’area di Broca,
                    dimostra intelligenza, ambiguità, seme
della contraddizione, linguaggio
                    dell’angoscia, della speranza, del desiderio).     
                  
                    Io mastico parole a pezzi e bocconi, buon pro mi faccia,
e vi giuro nella catastrofe è tutto un riso irrefrenabile,
un irrefrenabile risotto allo zafferano, alla sbirraglia, alla genovese,
                    alle vongole, in un brodo sbrodato di fame nera
e di non c’è trippa per gatti, in abbondanza e in carestia.
                    Un riso irrefrenabile, sì: che vive
anche del suo contrario, todavía.
                   
                    (Viaggiando, si diceva: catturando con gli occhi
i movimenti lenti e precisi di quelle frotte di bag ladies
e di bag lords che mangiano disperazione nella pozza di cecità
del quotidiano targato London, per esempio, targato Los Angeles,
                    si vous voulez
– e sulla stessa linea
                    di piccolo orizzonte, l’uccellesca
Battaglia di S. Romano e le Brillo box di Andy Warhol).
                                           
                    Ma anche stando fermi, standosene fermi al quia,
sempre aguzzando la mente (e la mèntula). Ovverosia:
non lasciandosi prendere a gabbo, catturare nello spirto, sigillare
in cassaforte, pur nella distrazione perenne.
                    Questo conta, nelle matematiche
del vivere e del morire. (E non si dica sia troppo, o troppo poco).   
                  
                    Nella noia di press’a poco tutto si smicciano foto,
ritratti, panorami, landscapes, abbozzi, schizzi, sbozzi,
insomma immagini di paesaggi, di città, di persone
presenti o perse: e le si vede ridere talvolta, perfino
con l’incoscienza della felicità, le si vede
                    annegate nella mestizia,
e poi correre via, a un tratto, là nella bufera, tra architetture
indemoniate, boschi in volo nel cielo, colline di cenere,
volti stampati sui muri – come dire, il sogno che non si rivela,
                    come i segreti delle cassapanche.

Aguzziamo l’ingegno (di cui non c’è proprio carenza, per fortuna):
ma senza aprire gli occhi all’improvviso, che potrebbero
anche farsi male, come
                    neonati appena fuori dall’utero.
                    Troppa luce risulta accecante, superfluo ricordarlo
– quindi, occhio agli occhi, fratellini. Ché questo è un paese,
e lo è veramente e in verità, da vivere come immersi
                    in una grande foresta
di piante nane e giocattoli scaduti, alberi del pane e della fame
– e poi come una fiera di alienati, di cornuti, di maghi
senza magia e di angeli ubriachi; e ancora, ancora, se ne resta
il tempo, come uno sterminato cimitero
di illusioni, progetti, allegria di depressi, dentro una forma
partorita in bagliori di tenebra da mille forme
                    senza vero ancoraggio,
                    in una mareggiata secolare, sotto l’urto
di inusitate analogie, sintassi alterate, catastrofi del senso, cercando
                    volenterosamente un bastone
per la sua onorata vecchiaia nazionale
                    e – in mancanza di meglio –
                    un dio bugiardo, di quelli che non mancano mai,
qui, nel buio della mente e della mèntula.

                    Si  fanno solo monologhi, oramai. Si volteggia
e fibrilla attorno a se stessi, parodie
di dervisci rotanti, forse nel senso contrario ai giri della terra,
                    asse decentrato rispetto a tutto, tra fasci
di luce avvelenata e languori nefandi, tenerezze d’ombra
sempre più rare, effimere più della fiamma di un cerino,
                    in mano un bicchiere di pompelmo
che oscilla rischiosamente, faccia impiastrata
                    di olio di macchina, avanzando
con atroce lentezza nella ressa dei corpi e delle anime,
proprio un muso di Boeing 37 in un vuoto d’aria, una botola,
ballando, ballando, traballando, misconoscendo quasi tutto:
                    crepitio di una mitraglia o di una scarica
                    di bolle di sapone.
 
Tanto, inutile far finta di no, tutte le nostre
sono ormai vite poliziesche.
Per portare a casa ogni giorno cazzeggiando
                    la nostra pelle di scarto
c’è da faticare mica poco: appunto
moltiplicare i punti di vista
è sempre una strategia da praticare, nel sonno
                    e nella veglia
– giocando con Finnegan o, se si dà il caso, sparando
                    a salve sui nemici  
veri e presunti, Madonna zambracca!