L’arte di comandare gli uomini
L’arte di comandare gli uomini
Per ascoltare l'intervista ad Angela Scarparo a Fahrenheit del 29 dicembre http://www.radio.rai.it/radio3/fahrenheit/mostra_libro.cfm?Q_EV_ID=271959
Ha pubblicato Shining Valentina (Mondadori 1993), Quando cresci in un piccolo paese (Transeuropa 1995) e Disturbando famiglie felici (peQuod 2005).
INCIPIT
Roma, via Gregorio VII
Tutti i mesi, per posta, ne riceveva una.
Ma siccome si svegliava tardi, la mattina non sentiva mai suonare il campanello, e il postino allora lasciava la busta a una vicina.
La signora Fantini, l’inquilina del piano di sotto, era la vicina. E siccome la Fantini oltre che una vicina era anche una tipa molto curiosa, si teneva la busta fino a che non vedeva Elisa, o finché non le andava di portargliela. Di solito una di queste due cose succedeva il pomeriggio. In realtà la vicina si faceva dare volentieri la posta di tutti. Lo faceva per sapere più cose di loro.
Il postino da parte sua, era contento di lasciargliela, così non doveva fare la fatica di dividere le buste nelle singole cassette.
Quando la vicina andava di persona a lasciare la busta da Elisa, era perché voleva saperne di più su di lei. Suonava, più o meno verso le tre, per essere sicura di trovarla sveglia, e se Elisa apriva, la vicina chiedeva, con aria finta simpatica, «Allora, come va? Tutto bene? È arrivata questa…».
E le dava la busta gialla.
Qualche volta, aveva guardato dentro l’appartamento e ci aveva provato a chiedere se potevano prendere lì un caffè assieme. Ma Elisa aveva detto sì solo due volte, al caffè. E tutte e due le volte era stato a casa della Fantini.
A casa sua, mai. Aveva sempre trovato delle scuse. Aveva sempre detto che aveva da fare.
Anche quella mattina era arrivata la busta. Allora la vicina provò a suonare. Era l’una. Non aveva voglia di aspettare le tre, perché voleva andare a trovare la figlia. Elisa da dentro gridò, «Sì?».
“Mattinieri oggi…”, pensò la vicina ferma sulla porta.
Elisa aveva mangiato poco la sera prima, così si era svegliata presto, e con molta fame. Adesso stava leggendo un fumetto, con le mutande bianche che le strizzavano la pancia, seduta su una sedia del soggiorno. Davanti a lei, sul tavolo, un panino smozzicato, una tazza sporca di caffè e un cellulare tutto rovinato.
Aprì la porta, vide la busta gialla, la prese e senza salutare né dire grazie stava richiudendo. Ma si accorse di essere stata sgarbata, e allora disse, «Scusami Grazia, stavo dormendo…».
«A quest’ora?», sorrise l’altra che non si faceva mai scappare l’occasione per far vedere che personalità forte aveva. Elisa in piedi voleva chiudere la porta.
E «Neanche grazie mi dici?», chiese allora l’altra.
«Ma ti ho chiesto scusa…»
«La prossima volta scendi e te la metti da te la tua firma, per prendere la busta…». Voltando le spalle, la Fantini se ne andò.
Elisa chiuse piano la porta e aprì la busta gialla.
Aveva mani infantili, con le unghie rosicchiate. I capelli ricci, tinti di rosso fuoco le davano un’aria aggressiva.
Il naso, ereditato dal nonno, commerciante che si era fatto da solo con la borsa nera negli anni della guerra, ce l’aveva importante. Anche la bocca, che aveva ereditato dal padre, ce l’aveva carnosa, ed era quella che la faceva sembrare più giovane. Si sa quanto invecchino precocemente un labbro smorto, un collo cascante, in certe donne.
Gli occhi erano belli. Presi dalla madre, una alta, florida, bruna, importante, ma debole di carattere, erano grandi, verdi, con delle belle ciglia che sembravano disegnate. Dimostrava certo meno della sua età, Elisa, che era intorno ai trentacinque. Ma se l’aveste vista solo due mesi prima avreste pensato a lei come a una ragazza. Da quando Quai l’aveva lasciata aveva preso l’aria di una donna.
Nella busta c’era un assegno celestino.
Di fianco a INTESTATO A, era stato aggiunto a penna dal proprietario dell’assegno e del conto, il nome di lei, e cioè: Elisa Dentera.
Di fianco alla parola FIRMA invece il proprietario del libretto e del conto aveva firmato con uno svolazzo il suo proprio di nome, e cioè: Ruggero Quai.
Dietro l’assegno, l’intestazione NON TRASFERIBILE era stata messa con un timbro.
Elisa cercò qualche altro foglietto dentro la busta, ma non c’era più niente.
L'intervento di Antonella Agostino alla Laterza di Bari il 5 marzo 2009
Con questo suo quarto romanzo, L’arte di comandare gli uomini (dopo Shining Valentina, 1993, Quando cresci in un piccolo paese, 1995, e Disturbando famiglie felici, 2005), Angela Scarparo ci fa entrare nel mondo di Elisa Dentera, intellettuale e inetta, anzi «inettettuala» – tanto per usare un neologismo appositamente coniato dalla scrittrice – incapace di mettere a frutto una laurea in giurisprudenza, di prendere un pennello e dipingere, di fare il palo per un semplice ed organizzatissimo furto. «Io non sono mai stata capace di ribellarmi. Non sono mai stata capace», confessa non a caso, la donna nel libro.
Suscita emozioni contrastanti nei lettori e nelle lettrici questo nuovo personaggio frutto della fantasia della scrittrice e sceneggiatrice brindisina. Impietosamente la Scarparo dapprima ci fa provare pena per questa ragazza, abbandonata dal compagno, rinserrata nelle mura di un abituro a leggere fumetti, «con le mutande bianche che le strizzavano la pancia, seduta su una sedia del soggiorno», circondata dal vuoto; con lei solo un tavolo su cui minuziosamente vengono descritti «un panino smozzicato, una tazza sporca di caffè e un cellulare tutto rovinato». Poi alla compassione subentra la rabbia, la ripulsa.
Elisa è una donna solo apparentemente innamorata, dal momento che il suo cuore batte per amori mai vissuti, per uomini mai incontrati. Elisa sogna, infatti, di passare da letti di piume e lenzuola di seta a letti squallidi «dentro il peggiore motel», come una sorta di viaggiatrice inquieta, dietro le cui sembianze intravediamo quella «altra metà del cielo», che è poi la donna secondo Novalis.
Solo in apparenza propositiva, la protagonista dell’Arte di comandare gli uomini si rivela incapace di tradurre in azioni anche i suoi più semplici bisogni. Eppure la Scarparo non ci consegna un personaggio totalmente pessimista. «Elisa inciampando nelle scarpe di Ferragamo a cui non era più tanto abituata, se ne andò». Elisa è una donna che sbaglia – vittima di un padre capace soltanto di umiliarla – dalla personalità nevrotica, angosciosa e angosciante. È una donna che vuole prendere e mai dare, arraffare il più possibile, convinta che il mondo sia un posto orrendo, dove c’è spazio solo per i furbi, per i «dritti». Voleva vivere a Roma, da signora; lo desiderava da quando era piccola, spinta dalla passione per il cinema: «Volevo proprio venire a Roma. È da quando ero piccola che lo desideravo. Sono appassionata di cinema, io. Nella città che vedevo nei film in bianco e nero, volevo vivere. La città che leggevo nei romanzi di Moravia». E nella Capitale sognava di arrivare vestita con un bel tailleur azzurro di Versace, con orecchini d’oro ai lobi delle orecchie, una raffinatissima borsa di Fendi e i tacchi alti di Ferragamo. Qui poi, Elisa è appassita e nel suo lungo colloquio con Angela si mostra imbracata in tute sformate, scarpe dalle zeppe altissime e deformate; scarpe vecchie da cui spuntano le unghie dallo smalto consumato, sbeccato.
L’arte di comandare gli uomini è la storia di una donna, debole, fragile, nevrotica, pronta però a ribellarsi col suo corpo, a partire dal suo intimo per dire «basta», a partire da sé per non adattarsi alle regole, in modo da poter dire ancora una volta: «hai in mente quando ti guardi negli specchi, sai quegli specchi che si specchiano l’uno dentro l’altro? Quando ti guardi senza guardarti negli occhi…quando sei in mezzo alle immagini di te che ti rimandano tanti specchi?»
È tutta qui la disperazione di Elisa. Una disperazione che la fa passare dalla depressione alla esaltazione. Forse solo un uomo, solo un poeta potrebbe consolarla. Forse sì, forse no… No, ormai non basta più.