Abe Kobo, L'incontro segreto

05-01-2006

In cerca di Euridice fra letti di ospedale, di Emanuele Trevi


È una scheggia purissima di Novecento quella che ci offre Gianluca Coci traducendo un romanzo ancora inedito di Abe Kōbō, L’incontro segreto, pubblicato in Giappone nel 1977. Nato negli anni Venti, e cresciuto in Manciuria con la famiglia al seguito delle truppe di occupazione giapponesi, Abe Kōbō va considerato un po’ il padre nobile di tanta attuale avanguardia nipponica, uno stile tra il surreale e il nichilista che ha eredi non solo in letteratura, ma nei fumetti, nel cinema, nella fotografia. Dopo la guerra, nel 1948, si era laureato in medicina, ma la folgorazione dei racconti di Kafka lo aggioga per sempre alla vocazione letteraria. Come il nostro Manganelli, Abe Kōbō (morto nel 1993) predilige l’allegoria, insegue l’assurdo della realtà nella sua riduzione a emblema, labirinto, sintomo nevrotico, gioco linguistico. Il romanzo che gli dà la fama nel 1962, La donna di sabbia, racconta di un uomo e di una donna che vivono sul fondo di una voragine, impegnati a non farsi sommergere dalla sabbia che viene giù in continuazione. Se ne ricavò anche un film, in quei beati anni sperimentali anche in Giappone, diretto da Hiroshi Teshigahara.
Anche L’incontro segreto è più una visione che un romanzo vero e proprio. La distinzione va intesa in questo senso: invece di prendere le mosse da un’idea condivisa dello spazio e del tempo, uguale per lettori e scrittore, come in genere fanno i romanzi, libri come L’incontro segreto inventano da sé, secernono dal loro interno lo spazio e il tempo che gli sono necessari. Producono insomma lo spazio e il tempo come se non si trattasse di elementi del senso comune, ma di imprevedibili e personalissime metafore poetiche. Nell’incontro segreto tale spazio è dato da un complesso ospedaliero immenso, che non solo occupa una immensa superficie, ma si distende in un labirinto di corridoi e piani sotterranei nel ventre della collina sulla quale è costruito. Tante sono le attività, e i relativi tipi di edifici, connesse all’ospedale, che più di una volta il protagonista osserva che non è facile capire quali sono i suoi confini, dove inizia il resto della città –insomma ciò che non è l’ospedale. Abe Kōbō non nomina mai Tokyo, ma siamo vicino al mare e a un certo punto, come in un ironico ammicco alle celebri vedute di Hokusai, fa intravedere il sereno profilo del monte Fuji tra le visioni del delirio più scatenato.
In questo piranesiano policlinico, il protagonista del romanzo, un venditore di scarpe “da salto” che permettono prodigiosi balzi (forse memori di quelli di Karl in una famosa scena di America di Kafka), si aggira alla ricerca della moglie, prelevata da una ambulanza alle quattro di mattina, in camicia da notte e mutandine, e in stato di perfetta salute. Creazione di un demiurgo cattivo che sembra aver perso il controllo della situazione, l’ospedale (come tanti anni dopo nel Regno di Lars von Trier) non è solo uno spazio che si auto-genera dilatandosi e ramificandosi come un orrendo organismo, ma anche un luogo che produce un tempo narrativo del tutto particolare, estraneo ai concetti di “prima” e di “dopo”, arrotolato su se stesso come le pieghe di un panno umido.
Alternando prima e terza persona nel suo resoconto, l’eroe alla ricerca della moglie ci parla simultaneamente da vari punti cronologici della sua avventura, consapevole che il senno di poi non vale più dello smarrimento iniziale per venirne a capo. Come un Orfeo dadaista alla ricerca della sua Euridice prigioniera della burocrazia medica, anche la sua impresa è votata al fallimento. Accelerando al ritmo di una comica muta la dinamica del mito, si potrebbe dire che l’Orfeo di Abe Kōbō non ha nemmeno bisogno di infrangere un interdetto, voltandosi verso Euridice. Ogni suo sguardo, per quanto si voglia rivolto avanti, è anche, nello stesso tempo, rivolto indietro. «Non riesco ad accettare un passato che non è mai iniziato», tira le somme alla fine dell’avventura. Come è magistrale la sapienza dimostrata da Abe Kōbō nell’intarsio di tanti tempi narrativi, così nell’Incontro segreto è da ammirare al massimo grado anche la strategia dello straniamento. Il racconto, insomma, costruisce un mondo del tutto inverosimile, arbitrario, distopico, dilatando fino al grottesco oggetti e situazioni perfettamente verosimili, e riconoscibili.
Solo un esempio di questa tecnica impiegata in maniera sopraffina (e se prima è stato evocato Manganelli, di sicuro sconosciuto a Abe Kōbō, adesso si potrebbe fare il nome di William Burroughs): «Le otto del mattino: è l’ora di punta in un ospedale. Bambini che frignano perché non vogliono fare il prelievo, infermiere che volano da una stanza all’altra termometro alla mano, pazienti con i vasi da notte pieni di urina che vagano per i corridoi, aiutoinfermiere che battibeccano con i degenti sull’opportunità di tenere aperte o meno le finestre, giovani pazienti con i peni inturgiditi tastati dalle dita delle dottoresse».
Pubblicato appena due anni dopo il suicidio in diretta di Mishima, L’incontro segreto non è il libro di un epigono, anzi sembra aprire un’epoca tanto quanto quella morte ne chiudeva un’altra. Abe Kōbō, in altre parole, può dare l’impressione, a volte, di scrivere «alla maniera di», ma poi trasforma tutta la letteratura che conosce in qualcosa di radicalmente diverso e privato, in uno strumento di conoscenza che solo le sue mani sanno impugnare. È ispirato profondamente da un’idea della mente umana, delle pulsioni e delle inibizioni che ne regolano il funzionamento e spesso la conducono alla follia. È a questo spazio mentale, a questo spazio-prigione, o spazio-cunicolo, che l’ospedale presta una splendida metafora. Come nella mente che sogna o nella mente psicotica, nell’ospedale, luogo di somma incertezza e variabilità e minacciosa pulsazione del tempo e dello spazio, non hanno luogo le regole logiche della contraddizione e dell’esclusione. Tutto vi è simmetrico, direbbe Matte Blanco.
L’emblema di questa condizione abnorme è un adagio ripetuto con demente fiducia secondo il quale ogni buon medico è un buon paziente. Ed è il «crollo progressivo della sua relazione con il mondo esterno» la vera posta in gioco dell’avventura dell’eroe di Abe Kōbō. Il quale genialmente, proprio mentre costruisce la sua visione, scredita il senso stesso necessario a ogni visione, la vista, perché nell’ospedale, avvolto da una rete di microfoni e microspie, ciò che conta non è ciò che si vede, o l’essere visti, ma i rumori che si producono e quelli che si ascoltano e si riescono a decifrare. Lo stesso protagonista, per orientarsi nel labirinto, dovrà ripercorrere le proprie impronte sonore, affidate a nastri nei quali potrebbe celarsi, ai limiti dell’indistinzione e dell’equivoco, anche qualche lieve rumore prodotto dalla moglie perduta. E questa dimensione acustica è una ulteriore soglia da attraversare, un ulteriore slittamento di senso, l’estrema trappola che aspetta i visitatori, i medici, i malati della mente-ospedale di Abe Kōbō, e naturalmente tutti i lettori dell’Incontro segreto.