Alberto Rollo, Un'educazione milanese

10-11-2016

L'impresa di armeggiare col tempo, di Marilù Oliva 

«Il presente non basta. Nel presente si perde il privilegio della prospettiva, nel presente si perdono amici senza sapere perché li perdiamo, nel presente riusciamo appena a raccontarci che cosa ci fa male. Cerco ponti in cui lo spaesamento e il sentirmi a casa coincidano. E su quei ponti finiscono con l’apparire, teneri e meridiani, le figure che mi riconducono là dove io sono cominciato e dove è cominciata, per me, questa città».
 

Credo che una delle imprese più ardue e necessarie per uno scrittore sia quella di armeggiare col tempo, perché se l’operazione risulta imprescindibile per chi si occupa di storie – per forza di cose collocate in un’architettura temporale – talvolta il rischio è quello di maneggiare in maniera impropria un’entità tanto preziosa. Questo non accade nel romanzo di Alberto Rollo, Un’educazione milanese (Manni, 2016): perché qui il tempo viene trattato con delicatezza, grazia e rispetto, attraverso lo strumento di un ricordo non continuo, ma assiduo, che ha la facoltà di rimandare ugualmente allo stato presente delle cose. Sono partita dal discorso temporale anche se quello che fin dalle prime pagine preme all’autore è piuttosto la dimensione del luogo ovvero la sfuggente Milano che spesso è stata, in narrativa, più un’interpretazione che una precisa restituzione, come specifica lo stesso Rollo:

«Milano è così difficile da dire. Come ci si muove si sbaglia. Salvo casi rarissimi, penso ad esempio che i narratori che hanno fatto di Milano un fondale siano tutti caduti in qualche errore, di sopravvalutazione, di sottovalutazione, di colore che non c’è, di assenza di colori che è una pietosa banalità, di provincializzazione e di internazionalizzazione. Quando si dice che da un romanzo esce “una certa Milano” mi sale una forma di indistinta apprensione».

La terra meneghina emerge dapprima in filigrana, poi sempre più nitida, e il narratore compie l’incantesimo di restituirne al lettore dei contorni precisi, oltre all’alone impalpabile di cui ogni città è inesorabilmente ammantata: Milano e i suoi ponti che scavalcano i luoghi della politica e della comunicazione – le sedi governative, le ferrovie -, Milano e l’integrazione mancata, Milano e la sua architettura non in linea col tempismo, Milano e i suoi parchi, le torri, l’università, i mondi sconosciuti al di là degli orizzonti di due occhi d’infante. Un passeggiata topografica che si dilata a mappatura di una cittadinanza eterogenea, mutata nel tempo, che non si lascia acchiappare.

Negli anni Cinquanta i bimbi giocavano serenamente in cortile, il bagno si faceva in una tinozza di legno, una volta alla settimana, e la domenica si viaggiava in filobus, in visita ai parenti. L’autore, figlio di un metalmeccanico e di una “piccinina” che aprì una sartoria -, rammenta i luoghi: il cimitero di Musocco, luogo di scampagnate, gli stretti androni, le sale pubbliche per uomini e donne, le officine, le fabbriche. Con gli anni successivi, quando il protagonista si fa ragazzo, il capoluogo lombardo non ha una forma definita politica, ma serpeggia in molte case la medesima paura:

«Al comunismo si guardava come alla minaccia più grande, anche più grande del sesso. Quantunque fossimo in anni di profondo rinnovamento (nel 1958 era salito al soglio pontificio Giovanni XXIII), era come se i comunisti mangiabambini fossero sempre vivi nelle sale in cui ci si ritrovava per fare catechismo, giocare a calcetto, mangiare ghiaccioli».

 

Il contesto urbano diviene proiezione soprattutto dei suoi abitanti e delle loro abitudini. Si dispiega così una galleria di personaggi che innescano uno sfondo corale: i familiari, Adriana, Paolo e gli altri della “truppa”. E Marco, studente di architettura, indole rivoluzionaria, aria di irriducibilità e di sfida, Marco che fuma lentamente e suona con la chitarra We gotta get out of this place, Marco emblema di un tempo che scorre e consuma le cose, infischiandosene della coerenza.

Mentre sullo sfondo si succedono eventi epocali come la morte di Togliatti o l’assassinio di Feltrinelli, la cifra autobiografica disegna una società prima spaesata, poi, in parte, illusa. Questo avviene tra gli anni Sessanta e Settanta, periodo in cui comincia a consumarsi “lo strappo” e a presentarsi “la mescidazione culturale ibrida di ottimismi e false prospettive.”

Un libro scritto con una prosa pulita, a tratti poetica, sempre molto consapevole. Un libro utile, anche, perché il lettore riflette e si interroga: Dov’è finito il senso di appartenenza di classe? Perché i lavoratori stanno abbandonando lentamente l’idea di competere con chi detiene le redini e i mezzi di produzione? Cosa significa, oggi, schierarsi? Quanto si sta indebolendo la parola “ribellione”? Alberto Rollo – conosciuto per il suo lavoro di direttore letterario presso Giangiacomo Feltrinelli Editore, da oggi (notizia freschissima, che ho appena appreso) presso Baldini & Castoldi – non lancia giudizi, ma cerca di riportare con precisione lo stato delle cose.

Concludo con una chicca che gli appassionati del più grande scrittore colombiano, il Nobel di Aracataca, sicuramente avranno notato con piacere. Non mi riferisco tanto alla citazione di Macondo, “l’eccellente intuizione di marketing” raccontata nelle pagine 310-311, ma piuttosto all’incipit in cui il padre del protagonista accompagna il figlio in una piazza a vedere un gruppo che si esibisce con fisarmonica e canti. Non compare Melquìades, non compaiono zingari (che pure vengono citati, quasi a creare un trait d’union sottilissimo) ma la scena viene cristallizzata con la stessa potenza epica ottenuta da Gabriel García Márquez quando il piccolo Aureliano Buendìa ricordò quella volta in cui il padre lo aveva condotto a vedere il ghiaccio.