Una vita difficile e un entusiasmo invincibile: gli incontri, gli amori, i giudizi di una donna sincera, di Gerardo Trisolino
Ci sono libri che trascinano vorticosamente il lettore e altri che si fanno centellinare (come accade con la poesia).
Sono nata il ventuno a primavera. Diario e nuove poesie di Alda Merini appartiene alla prima categoria. Non solo perché è uno smilzo libretto che esige appena qualche ora di attenzione, ma soprattutto perché è la trascrizione di un’intervista registrata da Piero Manni nella casa milanese della poetessa. Interromperne la lettura significherebbe quasi interrompere l’immediatezza dell’intervista. E poi la fluvialità è la cifra dominante della Merini. Una fluvialità che investe e travolge. Arrestarne il flusso è impresa alquanto difficile, come ha sperimentato lo stesso disarmato curatore.
La frequentazione di Piero Manni e di Anna Grazia D’Oria con la Merini è ormai decennale, così come è di antica data il particolare rapporto della poetessa con il Salento, considerato che è vissuta a Taranto accanto a Michele Pierri.
Già nel ’99, con lo stesso editore vide la luce un altro volume biografico intitolato La poesia luogo del nulla, curato da Chicca Gagliardi e Guido Spaini, da cui sono tratte alcune poesie qui riproposte, come quelle dedicate a Turoldo, a Pierri, a Volponi e alle donne del sud.
Alle confessioni autobiografiche si intrecciano testi poetici editi ed inediti, per confermare l’equazione poesia-vita nella Merini.
La prima parte, Sono nata il ventuno a primavera (espressione contenuta in Vuoto d’amore) è un’originale “biografia intellettuale”. In essa la Merini ricostruisce, con la consueta impertinente ma innocente impudicizia (“Ancora oggi sono una donna che se uno gli piace gli dico: Vuoi venire a letto con me?”), le fasi più travolgenti e più passionali della sua disinibita adolescenza. In primo luogo la cotta per Manganelli (lui aveva 27 anni, lei 15 quando si conobbero), che le rubò “sull’erba, al calore del sole, / la perla della mia giovinezza”. “In fondo –confessa ora con quell’eterna fanciullesca baldanza la settantaquattrenne poetessa– la nostra unione era diventata un inferno anche perché mancava l’intesa sessuale… Non voleva saperne di fare l’amore…”.
Fu proprio grazie al nevrotico Manganelli, però, che Alda Merini conobbe la Corti, Turoldo, Pasolini, Sereni, Quasimodo (“è stato un bel rapporto che è finito presto”) e tanti intellettuali che contribuirono alla sua prematura fama. Stupisce qui l’assenza di Spagnoletti, che fu tra i primi ad apprezzare la forte capacità visionaria di quell’adolescente poetessa, che andava collocandosi nella linea orfica di Campana (risale al ’53 la raccolta La presenza di Orfeo).
Dopo la disinibita giovinezza s’aprì poi la ferita più lacerante della sua vita: la terribile decennale esperienza manicomiale (altro topos della sua poesia): “Mi resi conto di essere entrata in un labirinto dal quale avrei fatto fatica ad uscirne”.
Rimasta vedova del primo marito, iniziò la corrispondenza con il sulfureo poeta religioso tarantino Michele Pierri, che sposò nell’83 (si passavano 35 anni!): “Un uomo difficilissimo –dice di lui la Merini– contraddittorio, si sentiva un Padreterno e voleva tutti sotto di sé… era esigentissimo, possessivo, imperativo”. Sotto il tetto tarantino di Pierri ebbe modo di conoscere prestigiosi intellettuali salentini come Oreste Macrì e Donato Valli. Fu un’altra esperienza coniugale fallimentare. Abbandonò Taranto nell’86 e rientrò ai suoi Navigli, dove riprese a frequentare i vecchi amici (Scheiwiller, Raboni, la Corti) e se ne fece di nuovi. Da allora è divenuta la mecenate di clochard e giovani con problemi esistenziali e difficili rapporti familiari, tra cui il figlio di Paolo Volponi, morto prematuramente.
Tra il magma incandescente della sua memoria emerge di tanto in tanto un pensiero straordinariamente lucido, spia del suo spirito ribelle e indomabile, tenacemente impudico e fiero: “Perché sei l’amante di tante persone? perché non voglion dire che tu vali, e trovano giustificazioni per il tuo successo”.
Quando Manni le chiede a cosa e a chi serva la poesia (siamo nella seconda sezione intitolata È stanco, il poeta), lei risponde candidamente: “A niente, serve che la porti in seno, è tua e basta; a cosa serve la bellezza?”. A seguito delle insistenze dell’intervistatore, ammette infine che la poesia è anche un “fatto sociale”.
D’altronde, basta leggere gli ultimi testi, raccolti nella terza parte di questo prezioso e utile volumetto, per comprendere che la sua disperata solitudine, il suo disperato bisogno d’amore, la sua disperata ricerca di Dio (Poema della croce è la sua più recente plaquette, prefata da monsignor Gianfranco Ravasi) non è solamente un fatto privato, ma lo specchio dei tempi.