Alessandra De Cupis, Pezzi grigi di cielo

20-07-2006

Storie dal carcere, dietro alle sbarre della vita, di Antonello Sanvito

Fresco, scorrevole, ma non leggero. E non solo perché parla di carcerati. Il libro di Alessandra De Cupis, monzese d’adozione, da molti anni insegnante nell’istituto Olivetti, fa emergere in poche righe trame di vita. Ogni racconto in poche pagine, i personaggi si svelano al lettore come se si stessero confidando ad un amico in parlatorio, o in una lettera. C’è Alina, rumena venuta in Italia convinta dal suo uomo, per fare una famiglia; con in testa l’obiettivo e fortemente innamorata, accetta di prostituirsi, per raccogliere denaro, comprare una pizzeria. Quando scopre che agli occhi del suo compagno è “solo” una mignotta, lo uccide e finisce in galera, con tutta la sua rabbia e delusione. Dietro le sbarre c’è anche Claudio, manager che si è fatto da solo, grazie al sostegno discreto ma deciso dei suoi genitori, piccolo-borghesi. Non vuole pagare gli alimenti a Lidia, che lui ha sposato credendola un’ottima moglie e futura madre. E che invece ha scoperto essere solo un’avida arrampicatrice sociale. In cella, anzi nel gabbio, si trova anche Edoardo, commerciante laziale di utensili, che ha tentato l’avventura di diventare imprenditore, al Nord. E ci era pure riuscito, ma violando le leggi ambientali e scaricando liquami tossici nel Lambro. E c’è pure chi sta bene in galera, come Ivan, detenuto a lungo termine su un’isola del Mediterraneo per aver ucciso la sua amante. Non ha rimpianti: lei voleva andarsene, “uccidendo” la sua anima, a lei completamente devota, e allora lui l’ha strangolata. È l’unico che vede il cielo non a scacchi, per gli altri i pezzi sono ora grigi, ora neri, rivelando l’inquietudine dell’aspirazione alla libertà ed a una vita “normale” non ancora sopita. Storie toccanti (ne abbiamo dette tre su sei, l’ultima è di un poliziotto, che in carcere lavora), ma per ammissione della stessa autrice, fragili dal punto di vista della cronaca: improbabile andare in carcere per non aver pagato gli alimenti alla ex moglie, o per aver inquinato il fiume. Allora, perché? La stessa De Cupis ce lo spiega, nell’ultimo capitolo, Carcere e divani: “Perché troppe volte ho riflettuto sui grandi temi che con queste storie… ho voluto fare vivere. Il dramma della perdita della libertà, l’importanza della nostra vita della memoria, della rivisitazione analitica e valutativa che tutti facciamo del nostro passato. E poi: la vicinanza dell’errore, il rimpianto per delle scelte sbagliate, per non essere stati sufficientemente attenti a non cadere nei tranelli della vita”.
Voglia di riflettere, insomma, su di noi, sulla nostra vita. Un moto quello di Alessandra De Cupis che pesca nella sua esistenza personale. “Mio padre –ci ha raccontato– era giurista, e la sua seconda moglie seguiva i carcerati. Dai racconti che sentivo da loro mi ero resa conto che i ricchi, in caso di errore, potevano farla franca pagando gli avvocati, i poveri finivano in galera per un nonnulla”. De Cupis ha cercato allora di vedere l’errore, il giudizio sull’atto compiuto, la debolezza emersa, dal punto di vista del carcerato. “È facile condannare –ci ha detto– una persona solo perché finisce in carcere. Ed è un grosso errore”.