Alessandra De Cupis, Pezzi grigi di cielo

30-06-2006

Il tempo dietro le sbarre, di Diego Minuti

Le sbarre di una cella, gli alti muri di un carcere, non dividono fisicamente chi sta dentro dal mondo esterno, perché il corpo può essere sempre la rampa di lancio per un pensiero, buono o cattivo, che sa passare attraverso una grata e volare oltre una siepe di cemento e acciaio, eludendo occhi umani o elettronici.
Certo è che, comunque, il carcere, nell’accezione generale, resta un luogo dove espiare nel dolore e non invece espiare per potere, una volta tornati fuori, essere migliori o soltanto avere una opportunità in più per lasciarsi alle spalle tutto.
Ma le celle, i cortili, i corridoi, non sono soltanto luoghi di isolamento fisico dall’esterno. Divengono spesso gabbie per speranze che non hanno la forza per preparare il domani, se in questa definizione si fa rientrare il tornare liberi, l’avere diritto ad una vita normale, a sentimenti per troppo tempo negati.
Non sono certamente pochi i libri che trattano di storie di reclusi –e alcuni di essi sono entrati a fare parte della ‘grande lettaratura’–: l’universo che sta dietro le sbarre attrae da sempre scrittori, sociologi, poeti, perché la compressione degli spazi di libertà viene sin troppo sovente usata come paragone per la vita di chi è libero, quasi che il detenuto o la detenuta non facciano parte di una società indistinta, ma siano essi stessi ‘speciali’ solo perché vivono in pochi metri quadrati, a contatto con altre persone che solo il caso ha voluto accanto a loro.
Per chi “sta dentro” i parametri di chi è libero sono solo categorie ipotetiche, e anche il tempo –il parametro per eccellenza– diventa un contenitore che non scorre naturalmente, ma che è un qualcosa da riempire, ogni giorno, per non impazzire. Ed è forse il tempo, unità di misura ma anche, in un certo senso, sintesi estrema delle speranze, a dettare i tempi di Pezzi grigi di cielo, di Alessandra De Cupis, dove il carcere non chiude solo al mondo esterno i detenuti, ma anche coloro che le Istituzioni chiamano a controllare che essi rimangano tali.
Storie dal carcere, quindi, dove le porzioni di cielo accomunano nel sentimento, nel dolore, nella speranza, porzioni infinitesimali, ma impazzite del sistema, che hanno scelto la violenza (che è anche violazione del codice di comportamento dettato dalle leggi) o che da essa sono stati scelti.
Alina, Claudio, Maria, Edoardo, Ivan: chi ha ferito, chi ha abbandonato, chi ha venduto frammenti di morte, chi ha inquinato. Ma anche Paolo, l’agente penitenziario che sta lì, recluso anch’egli tra i reclusi, ai quali rivolge attenzione umana e, se loro glielo chiedono, sta lì ad ascoltarli, pensando che in fondo è solo forse per il gioco delle casualità che egli indossa una divisa e gli altri no.
“La galera –suggerisce Alessandra De Cupis– è la risposta tremenda della società odierna a chi non solo non ha seguito le sue regole, ma anche a chi potrebbe essere un pericolo per tutti. È la risposta della legalità alle deviazioni e agli errori dell’uomo. Il giudizio sulla persona è altra cosa”.