Andrea Ambrogetti, Ode ai corpi fisici

01-01-2011

Lettere, di Maria Lenti

 
Un equivoco mi ha avvicinato alle (e immesso) nelle poesie di Andrea Ambrogetti: non fisici avevo letto, appena ricevuto il libro, dopo corpi, ma felici. I qui pro quo di verità nascoste, o lapsus rivelatori di un desiderio (o altro, di mio)? Chissà. Sta di fatto che felici possono apparire, se non altro nell’ottativo, quei corpi fisici (e, nella sezione eponima, le menti libere e i cuori puri) cui Andrea Ambrogetti dedica poesie. Anzi, odi: attraversando vie traverse e sogni, memoria e città con fisicità d’incontri e di riscontri, con acutezza nel proprio sentirsi simile o in disaccordo con quei corpi “in transito tra i sessi” (Filippo La Porta, quarta di copertina).
Canti liberi, anche nel verso, nei versi che pure frequentemente corrono su un ritmo persino trascinante (se il corpo non è impedito da lacci e laccioli cerebrali), su una vena di sensualità (se il corpo si libera come richiesto dalla situazione) mai marcata o smaccata, su una qualche sfuggenza (tra un dire e non dire per una necessità di reticenza. Reticenza come dettato di paura di passaggio senza traccia), su una constatazione in cui non sunt lacrimae rerum perché, oggi, più che non consentite, si mostrerebbero fuori occasione e da strepito catodico, su un sentimento innocente (e non torbido, cioè) di coinvolgimento.
Canti senza rete, tuttavia, si evince al loro interno. La rete del dubbio, che il Novecento si è trascinato con sé insieme alla poesia di poeti e autori che lo hanno connotato. La rete di ogni utopia nullificata e resa a zero nel tempo di altarini quotidiani. La rete dell’attesa o del vuoto residuale che si produce tra mancanza e attesa. La rete della ricerca, raggiunta e delusa.
Gli elementi utopici e il vuoto, accompagnatori silenti ma insistenti del secolo scorso verso la sua fine con tanto di filosofia suonata a morte, anche nei versi degli autori usciti prima dell’esplosione di questo nostro ultimo spazio-tempo senza dei né idoli, privo di passato e di futuro, sono da Andrea Ambrogetti bypassati. La sua scrittura risulta, così, un presente che si snoda per quel che è: un eterno presente (non di rado, o meglio spesso, peraltro, il presente è il tempo della testualità), in cui tutto avviene e tutto passa, in cui tutto di determina e in cui tutto finisce: in una notte (La notte della strada), in un rapporto (La stanza del vapore), in una constatazione univoca (Il mio fiume ininterrotto). Con qualche spalmatura di ironia: “Romita e remota / questa spalla di montagna / sta / per scogliere di rovere irraggiungibile / per confezioni di salmoni / commestibile”.
Ma l’ironia non basta a rendere vivibili le perdite, né vale a restituire incanti. Vivere sì, con quel che il presente offre: non sempre, però e allora, i corpi fisici sono corpi felici. E le odi di Andrea Ambrogetti tornano su se stesse, avvoltolando malinconia. Non si sa per che cosa e per chi. Forse per la brevità stessa dei corpi fisici attinti e toccati o goduti. In questo non sapere sembra calarsi il senso, a volte, di un tenue, molto tenue, insinuarsi nei corpi fisici per stanarvi una loro essenza o consistenza… In questo ritrovando, dell’autore, la narrazione delle vicende di ragazzi alla scoperta di sé nel romanzo Sotto il cielo notturno di Roma, nel quale la scoperta di sé e del contorno corporale che lo alimenta fa il paio con la vivificazione di un sé fino ad allora nascosto o inconnu. Come possibilità, scarna e rara, ma cercata nella reiterata esplorazione esistenziale di probabilità insite tra adolescenza, post-giovinezza, maturità.