Andrea Manzi, Morire in gola

15-11-2009

Il mare chiama, e la terra risponde, di Ugo Piscopo

Di Andrea Manzi ho già parlato e non da molto, a proposito di una raccolta che era anche l’opera prima dell’autore sul versante della poesia. E di essa dicevo che era una prova interessante, in particolare per il dialogo intrattenuto con lo sperimentalismo, un dialogo in cui non tutti i nodi erano sciolti. Arriva adesso la nuova silloge, Morire in gola (introduzione di Maurizio Cucchi, Manni Editori, pp. 143), che ci dice che l’autore ha temperamento forte e deciso e che la scelta di campo adesso è netta. Manzi non ha più riserve o dilemmi, è dalla parte di una “sperimentazione a tutto campo”, come osserva Cucchi, precisando che l’opzione non discende da “freddezza intellettuale”, ma da generosità di slancio e da un’avvertita esigenza di affontare, senza limitazioni, paesaggi anche aspri e disparati, con la conseguenza di dover adeguare la poiesi a tali asperità e diversità.
Cucchi ha ragione: qui, la magmaticità è il tratto dominante. Sia le composizioni lunghe e articolate, che concendono maggior spazio alla rappresentazione, sia quelle brevi, che si chiudono in cifre di compostezza vigilata e toni sobri, mostrano, per sintomi molteplici, di essere abitate da un calore tellurico non raffreddato e di essere in consonanza con movimenti bradisismici, che inducono vertigine e straniamento alle cose e a chi le osserva. Il poeta ottiene questi effetti senza mai nominare l’ambito tellurico e le sue fenomenologie. Se ha in mente tracciati simbolici, essi si iscrivono sotto il segno dell’equoreità, che in particolare si manifesta nel mare. A un mare, in particolare, Manzi dà priorità in assoluto, il Mediterraneo, nel tratto che va dalle coste turche alla Sardegna e alla Corsica, con un punto di riferimento obbligato, Capri, che costituisce una specie di ombelico di questo mondo marino. Il quale è destinatario esplicito di un’intera sezione, l’ultima dove sono inclusi testi anche di carattere teorico, con dichiaraziaoni di poetica. Qui, tra l’altro, si offre una chiave d’ingresso all’universo poetico dell’autore, con frasi come queste: “Il mare non si uniforma non ha codici non ha misure e addosso non gli cuci alcun abito. Perciò da ora in avanti per me il mare starà alle parole come la natura al delirio”.
Ma è davvero così? O si tratta soltanto di intenzioni? Se a queste seguissero i fatti in termini di mimesi, sarebbe improprio riferirsi alla magmaticità, che è cosa tellurica. Dovremmo, allora, parlare di altre connotazioni simboliche legate all’equoreità, connesse alle strutture profonde dell’immaginario, come ha messo in luce Bachelard. Manzi, invece, nei fatti è meno un “lavoratore del mare”, per dirla con Hugo, che un tellurico, un poeta che ha voce e inflessioni di terra, che mima e riproduce asprezze terribilmente terragne, come in questo squarcio di una delle sue poesie più belle, dedicata alla condizione disumana della vita dei clandestini di colore di Castel Volturno: “viene l’alba se il pullman parte / è sera se torna ed è già tardi (troppo tardi) se scoppia d’affatto al capolinea / troppo tardi vuol dire che è andato e tornato – è morto e rinato / lungo la linea della traccia / ha fatto e rifatto la strada con uomini chiusi al destino”.