Andrea Tarabbia, La buona morte

27-02-2015

Cosmotaxi, di Armando Adolgiso

Anni fa, a Napoli, durante “Galassia Gutenberg”, una Guida – pur ben congegnata nell’illustrare quel pregevole festival letterario – in una sua pagina, fra le regioni italiane ne indicava una chiamata Vaticano. Grave errore, non c’è dubbio. Forse (se proprio era destino che la cappellata dovesse crudelmente colpire il redattore) meno grave sarebbe stato indicare l’Italia come uno dei quartieri del Vaticano.
Anche qui uno svarione geografico, ma non politico. Perché cospicua parte delle disgrazie del nostro paese sta nella dipendenza che i governi d’ogni tendenza, dalla dittatura alla democrazia, hanno avuto e, temo, avranno nei riguardi d’oltre Tevere.
Tante proposte di leggi non passano in Parlamento (e, peggio ancora, altre sono approvate) in ossequio alla volontà delle tonache.
Inoltre, anche fuori delle leggi, sono imposti comportamenti che obbligano pure i non credenti a conformarsi ad usi lontani dal loro pensiero.
"Sono centinaia le segnalazioni arrivate allo sportello laicità dell’Uaar, l’Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti – scrive Michele Sasso su l’Espresso – “attacchi alla laicità sono all’ordine del giorno anche dove dovrebbe essere un valore condiviso: nelle scuole".
Uno dei temi morali che è fortemente contrastato dalle gerarchie cattoliche (ma anche le altre religioni monoteiste non scherzano) è l’eutanasia.
Si assiste, però, anche ad alcune coscienze che, aldilà delle religioni si pongono in modo ragionato fuori dei dettami di questa o quella fede; un esempio recente QUI.
Il tema, quindi, è più dibattuto di anni fa e in Italia esiste anche l’Associazione Exit (nome acconcio quant’altri mai) che promuove plurali attività per sostenere una morte dignitosa in questo sostenuta ieri e oggi da Margherita Hack a Levi Montalcini, da Stefano Rodotà a Umberto Veronesi, giusto per citarne solo i primi che ricordo.

Sull’argomento ho speso più letture, ma tra i libri il migliore, a mio avviso, finora è stato scritto da Andrea Tarabbia, è intitolato La buona morte Viaggio nell’eutanasia in Italia, l’ha pubblicato la casa editrice Manni.
Tarabbia è nato a Saronno, in provincia di Varese, nel 1978. Ha pubblicato i romanzi “La calligrafia come arte della guerra” (Transeuropa, 2010), “Marialuce” (Zona, 2011) e “Il demone a Beslan” (Mondadori, 2011), il saggio "L'indagine sulle forme possibili” (Aracne, 2010) e l’e-book “La patria non esiste” (Il Saggiatore, 2011).
Nel 2012 ha curato e tradotto “Diavoleide” di Michail Bulgakov per Voland ed è uscito “Il cimitero degli anarchici” (Franco Angeli), scritto per l’Archivio di Stato di Regione Lombardia. Nel 2013: il racconto “La ventinovesima ora”, pubblicato in versione e-book nella collana Mondadori Xs.
Per sei anni è stato membro della redazione della rivista “Il primo amore”.
Conduce in Rete un sito web molto ben strutturato, v'invito a visitarlo.

Ad Andrea Tarabbia ho rivolto alcune domande.
Com’è nata l’idea del libro, quale la principale motivazione?

Ho ricevuto un giorno una telefonata da Agnese Manni, che mi ha proposto di fare questo libro sulla base del fatto che mi conosceva e sapeva che, in passato, quando stavo nella rivista “Il primo amore”, avevo promosso insieme alla redazione alcune iniziative legate ai testamenti biologici. Nel nostro piccolo, ci eravamo battuti per la legalizzazione dell’eutanasia. Ho subito accettato la proposta, perché mi sembrava di avere delle cose da dire sull’argomento e, soprattutto, perché speravo che il lavoro di ricerca per il libro mi aiutasse ad andare ancora più a fondo nella questione e mi facesse incontrare – come poi è avvenuto – persone con cui da tempo desideravo parlare. Mi sembrava poi che mancasse un libro che guardasse all’eutanasia, al fine vita, dal punto di vista per così dire umano e letterario anziché medico o giuridico: era dunque una specie di sfida. Ci ho messo un po’ della storia della mia vita e della mia famiglia, i libri che amo, il mio rapporto con la morte: mi sono in qualche modo messo a nudo. A volte penso che La buona morte, al di là delle cose che racconta in merito al tema che tratta, sia anche la messa su pagina, forse ingenua, di una poetica: è sicuramente il mio libro più autobiografico, meno trasfigurato – ed è curioso che tutto questo sia venuto fuori in un libro che parla del dolore e della morte degli altri.

Qual è il confine che separa il suicidio dall’eutanasia?

È difficile rispondere: credo che entrambi abbiano in comune il dramma di non sapersi più riconoscere come persone. Parlo spesso nel libro dei malati terminali come delle persone prigioniere di un corpo che non sentono più come il loro, che non riconoscono: una specie di guaina soffocante che ha smesso di funzionare e, quindi, di permettere alla persona di riconoscersi come tale. Questo è ciò che ho capito studiando e incontrando i familiari di chi ha vissuto i suoi ultimi anni invocando l’eutanasia ed è, secondo me, insieme al dolore e alla consapevolezza dell’ineluttabilità di una fine terribile, la vera tragedia, la cosa insopportabile che rende disumano e lontano dalla pietà ogni discorso contro il trattamento eutanasico.
Se invece con suicidio intendi il suicidio assistito, ti rispondo con una frase che Beppino Englaro mi ha ripetuto spesso: «Suicidio assistito significa: “Non ce la faccio più, aiutatemi a morire”. Eutanasia significa: “Non ce la faccio più, uccidetemi”» .

Nel libro sono citati i termini “vita biologica” e “vita biografica”. Quale la differenza? E a quali conclusioni porta considerare la ”vita biografica”?

Usavo questi termini riprendendo un’intuizione di Giorgio Cosmacini, che invocava la dicitura “testamento biografico” al posto di “testamento biologico”. Non c’è in ballo solo una questione di terminologia, ma il riconoscimento del fatto che siamo più ampi della nostra sfera biologica: una grave malattia non inficia la nostra vita solo a livello biologico, ma si mangia la nostra persona, azzera la nostra biografia, ci rende diversi da quello che siamo o che pensiamo di essere. A livello biologico si può sopravvivere anche molti anni con un male terribile. A livello biografico no. È di nuovo, se ci fai caso, il discorso a cui alludevo nella risposta precedente: il punto di non ritorno va fissato nell’istante in cui la malattia ci impedisce di riconoscerci ancora come una persona e, dunque, di considerare la nostra vita “umana”, meritevole di essere vissuta.

Qualora si riuscisse ad organizzare in Italia un referendum sull’eutanasia, credi che otterrebbe il quorum necessario? E, se sì, quale sarebbe il risultato?

Esistono ricerche che dicono che l’opinione pubblica italiana è pronta ad affrontare il tema e che in larga maggioranza voterebbe a favore dell’eutanasia. La sensazione che ho è che siano molto ottimistiche, ma i dati in possesso di Associazioni come la Coscioni o la Exit dicono questo.