Andrea Zanzotto, Sull’altopiano

10-01-2008
Zanzotto volò dall’altopiano fino al centro della coscienza, di Sergio D’Amaro
 
La riproposizione dei racconti di Andrea Zanzotto Sull’altopiano nell’edizione del 1964, arricchita però da un’appendice di inediti giovanili, permette di cogliere in visione di filigrana il terreno di coltura della vocazione letteraria dell’autore. Siamo tra anni ’40 e anni ’50, nel decennio di maturazione del giovane scrittore, sullo sfondo delle vicende belliche che incidono nella coscienza e aprono più ampiamente a scenari di recupero storico e a mozioni più coerenti di consistenza esistenziale. I racconti, le prose, gli schizzi dicono del confronto di Zanzotto con la realtà, «arido vero» o «velo di Maya» trascolorante in mezzo alle tempeste dell’io (e si tenga presente anche la cronologia delle prime prove poetiche di Zanzotto, A che valse?, comprese tra il ’38 e il ’42).
Esiste ancora senso, svolgimento, ragione, o tutto è involto in uno struggimento di visioni, di lacerti di vita che si infrangono e di disseminano in mille cellule di destini singolari? La sezione del libro intitolata Le signore, nel mentre rimanda a vicende e personaggi, si coglie già tutta nutrita di una sensualità decadente, di una a volte sontuosa complicità con la natura, con quel «paesaggio» che sta per diventare per Zanzotto lo schermo privilegiato di una interpretazione del suo mondo.
Personaggi che diventano emblemi o allegorie, facendosi memoria straniata e come campita in un passato segreto e sepolto, ma non per questo meno presente alla coscienza. Il giovane Zanzotto disegna e colora queste sue immagini, per poi confessare esplicitamente nelle pagine di più libera urgenza il suo animo tempestato di crepuscoli lampeggianti e di acutezze pascoliane. Così scopriamo con più chiarezza l’esperienza di un tempo «tanatocratico», la pressione della polvere e degli orologi in ogni tentativo di giorno, la notte che prevale su luci intermittenti. L’autore si mostra insofferente dell’«ordine funereo stabilito da questo pianeta» e lamenta che «la mia anima (sia) chiusa nella sfregiata dignità dei propri inferni».
È il momento in cui Zanzotto raggiunge la preziosa «parola che dice a tutti di restare con libertà e calma presso il proprio cuore palpitante». Una parola che si nutre di sentimento realistico alla nuda ricerca del vero, del fondamento. Dall’altopiano al centro della coscienza, queste pagine di prosa zanzottiana rinviano, dunque, a tutta la poesia cercata e trovata nell’esplosione dell’io biologico e della propria, intera modalità di affermazione dell’umano in risposta ai cambiamenti che incombono, alla storia che si muove dopo il grande strappo della guerra.