Antonio Debenedetti, L’ultimo dandy

06-03-2009
Dandy. Lo stile alla Wilde e Baudelaire che oggi è fatto a pezzi dalla tv, di Antonella Barina
 
 
Antonio Debenedetti, scrittore e recensore di libri, usa le parole con la rapidità e la destrezza del giocoliere: le lancia, le fa volteggiare e le riacchiappa come fossero palline o cerchi o clave, senza neanche aspettare che gli si faccia una domanda.
Basta che il cronista estragga il taccuino che lui lancia in aria i suoi ricordi: «Quasi quarant’anni fa andai a intervistare per la Rai il grande Simenon, nella sua villa di Losanna. Era un inguaribile donnaiolo – pare che ogni mattina, prima di mettersi a scrivere, facesse addirittura una capatina al bordello – e a ricevermi furono due splendide segretarie. Ragazze alla James Bond che, nell’attesa, come ammaestramento, mi diedero da leggere un libricino in cui lui rispondeva alle domande di alcuni psicoanalisti. Non lo lessi e feci bene: quando finalmente il maestro si palesò, condusse l’intervista come un cicerone conduce alla visita di un museo. Solo che lui, sottolineando soprattutto i capolavori, guidava alla scoperta di se stesso. Poi mi fece visitare la villa: le stanze dove erano raccolte le edizioni dei suoi libri in tutte le lingua del mondo; la casupola in giardino dove scriveva rigorosamente a matita, buttando via i lapis spuntati anziché temperarli… Dicono che in casa avesse anche una sala di rianimazione, perché era terrorizzato dalla morte».
Debenedetti si interrompe, riflette e affonda: «Simenon era l’antitesi del dandy. Perché era un perfetto vip, consapevole di esserlo. Mentre in dandy rifiuta il successo per motivi estetici: sfondare non è mai elegante».
Un tema in cui Antonio Debenedetti si muove perfettamente a suo agio: lui ha appena pubblicato un delizioso racconto edito da Manni, L’ultimo dandy. Dalle lettere e dal diario del signor M. in cui, proprio con il fare lieve e grave del dandy, tra sottigliezze ed echi letterari, tratteggia la figura capricciosamente colta, eccentrica, sfuggente, elegante, di un dandy anni Trenta. E spiega: «È importante racchiudere il dandismo in una formula. Lo stesso Baudelaire, che ne fu un maestro indiscusso, scrive nel Pittore della vita moderna: “Il dandismo è un’istituzione vaga, bizzarra come il duello; antichissima, perché Cesare, Catilina, Alcibiade che ne forniscono degli splendidi tipi; universale, giacché Chateaubriand l’ha trovata nelle foreste e sulle rive dei laghi del Nuovo Mondo (…). Non è, come molte persone poco riflessive vogliono credere, un diletto eccessivo della toilette e dell’eleganza materiale. Queste cose non sono per il perfetto dandy che un simbolo della superiorità aristocratica del suo spirito. Cos’è dunque questa istituzione non scritta che ha formato una casta così orgogliosa? È prima di tutto il bisogno ardente di crearsi un’originalità (…). È una specie di culto di se stesso (…). È il piacere di meravigliare e la soddisfazione di non essere mai meravigliati (…)- E l’ultimo raggio di eroismo nei periodi di decadenza”».
Per dandismo quindi non si intende, come nella vulgata, l’eleganza insolita e ricercata. Ma uno stato della mente, un talento: «Si nasce dandy, come si nasce un poeta o matematico», continua Debenedetti. «E anzi, per distinguersi, ci si veste con estrema semplicità e naturalezza. Mentre ci si spoglia dei pregiudizi borghesi, come fossero abiti urticanti. E si sfugge al gioco del consenso collettivo, senza curarsi di essere capiti. Il dandy trionfa deludendo i più, facendo sentire con le sue illogicità, le sue stravaganze d’essere sempre altrove, lontano da quanto è prevedibile, ragionevole. Insomma, se invitato a cena da Bonolis, il dandy declinerebbe l’invito: troppo in auge, troppo ambìto. Ma accetterebbe una cena da uno dei tanti “furbetti” che inquinano la vita italiana, per una provocatoria curiosità, salvo poi annoiarsi a morte e dimenticare subito la serata. Anche invitare a cena un dandy è complesso: sarebbe capace di piluccare solo un’oliva».
Tra i patriarchi del dandismo, con Baudelaire, c’è Oscar Wilde: «Non tanto quello degli anni d’oro, tutte battute e scintillii: intelligenza brillante destinata a consumarsi presto, che prelude al dandismo. Quanto quello degli ultimi anni prima di morire, deluso, malato, dai nervi stanchi, che del suo passaggio nella vita lascia solo un’ombra: lo spogliarsi di tutto è molto dandy. Come la scrittura noiosa: nel dandy c’è un moralismo della bellezza che diventa tediosa precettistica. Un grande narratore non può essere dandy, perché prende le situazioni per le corna, dice le cose con incredibile forza, magari anche con una certa volgarità. Vedi Balzac».
Dandy del Novecento? «Maurice Ravel, il compositore, per il suo aspetto raffinatissimo, la sua esistenza scapigliata, il suo rendersi vita affettiva impossibile. Ma anche per Bolero, musica fascinosa e perversa. E due virtuosi: l’uno della penna, lo scrittore Tommaso Landolfi, l’altro della tastiera, il pianista Arturo Benedetti Michelangeli. D’eleganza straordinaria, spesso in frac, come se li avessero tirati fuori da un baule di naftalina. E, parlando di look, anche l’attore Leslie Howard, l’Ashley di Via col vento. Nonché, a livello più profondo, il grande Roberto Bazlen, che pochi conoscono, anche se tanti hanno letto libri scelti da lui: di straordinaria cultura, di intelligenza fulminante, fu un impareggiabile suggeritore di opere e autori: basti dire che fu lui a segnalare Svevo a Montale. Un uomo che influenzò profondamente la cultura italiana, senza che i più sapessero di lui: un atteggiamento schivo molto dandy. All’opposto di un Marinetti, ad esempio, che si prendeva terribilmente sul serio e, sfregio alla lievità del dandismo, scrisse addirittura il proprio manifesto».
Tutti esempi maschili. Non sono mai esistite donne dandy? «Greta Garbo: diafana, smunta, distaccata. Di una bellezza che rifletteva la sua infelicità e il suo mistero. Ma anche Virginia Woolf, più come persona che come scrittrice: “La sua compagnia era incantevole”, scrive l’amica Edith Sitwell. “Gustava ogni iridescenza del mondo e dell’attimo, e inseguiva quelle dolci farfalle, ma senza sciupare la polvere colorata delle loro ali”».
E il dandismo oggi, nella società di massa? «Un dandy è tale se la civiltà mediatica lo ignora, se sfugge alla tv e ai giornali. Chissà dove si nasconde l’ultimo cultore della diversità elegante in quest’era dell’uniforme».