Antonio Debenedetti, Un piccolo grande Novecento

17-11-2005

Incontri memorabili: il Novecento continua, di Antonio Errico


Non è ancora finito il Novecento. Quel secolo dalle storie intrecciate, talvolta complicate, quel tempo che è sembrato forse troppo lungo, forse troppo breve, ogni giorno si ripresenta –leggero o invadente– nel nostro vivere, nella nostra dimensione dell’esistere, perché per noi molto –quasi tutto– è cominciato in quell’età, perché qualcosa è finito in quell’età e ci resta come sapore dolce o come ferita, come ricordo, comunque.
Siamo creature del Novecento, con le radici affondate in quella realtà, con lo sguardo rivolto alle sue passioni, con la consapevolezza che una nuova età si potrà costruire soltanto appoggiando i progetti sui muri portanti delle sue memorie.
È questo, probabilmente, il senso profondo della conversazione che Antonio Debenedetti tesse con Paolo Di Paolo in Un piccolo grande Novecento (Manni Editori, 2005).
Memorie individuali come scaglie di una grande memoria collettiva; maglie autobiografiche come cellule di una storiografia; incontri, personaggi, paesaggi che delineano un panorama del Novecento letterario italiano; ricordi che a volte è come se emergessero dai fondali e che a volte, invece, sciabordano leggeri sulla battigia della memoria. Non è una galleria di ritratti; non è la nostalgia di un amarcord; è piuttosto una ricostruzione di contesti e di percorsi di un secolo, fatta con l’affetto del discepolo, del compagno di strada, con la lucidità dell’intellettuale che sa comparare, distinguere, valutare, con la certezza che se tutto è relativo, la letteratura porta la relatività ad un incalcolabile grado, con la coscienza che la letteratura ha bisogno di confrontarsi con il tempo e che la prossimità cronologica e culturale del Novecento condiziona molte possibilità di confronto.
Giorgio Bassani, Attilio Bertolucci, Giuseppe Ungaretti, Mario soldati, Federico Fellini, Ennio Flaiano, Indro Montanelli, Elsa Morante, Alberto Moravia, Vincenzo Cardarelli, e altri, molti altri, si riaffacciano dalle finestre del pensiero di Antonio Debenedetti per riguardare quel tempo con gli occhi di chi in quel tempo li ha guardati vivere con lo stupore di un’infanzia o con l’ansia di una gioventù che assorbiva le tensioni e le passioni, i dolori e i racconti di queste esistenze che hanno attraversato il Novecento portando sulle spalle tutto il peso delle sue vicende e lasciando sul terreno impronte che il tempo nuovo non può ignorare né eludere.
Il Novecento è un tempo stratificato. E la memoria di chi ha abitato quel tempo, per poter affiorare deve attraversare tutte quelle stratificazioni, facendosi male, a volte. Poi, arrivati in superficie ci si rende conto che si sono ripercorse molte età, che si ha addosso tutta la polvere e dentro i tanti interrogativi e le poche risposte che sono stati la condizione vitale del secolo.
Guardarsi indietro per Antonio Debenedetti vuol dire rivedersi giocare con la ghiaia del giardino di Benedetto Croce, sulle ginocchia di Saba, recuperare i giorni persi a scuola con un maestro che si chiamava Giorgio Caproni. Se Debenedetti si guarda indietro ha l’impressione di aver attraversato due o tre epoche della storia.
Sono entrato nel nuovo millennio –dice– come se fossi sbarcato da un’altra era. A volte mi sento più che vecchio, un alieno, e questo rende difficili i rapporti con i miei coetanei che vogliono essere ancora in corsa.
Ha ragione Debenedetti. Ci sono uomini  che non vogliono essere in corsa, che si sentono estranei a qualsiasi competizione, perché hanno assistito a corse di campioni impareggiabili.
Allora, per questi uomini, diventa importante, essenziale, soltanto esserci: esserci nei confronti di se stessi, e forse anche nei confronti delle ombre della storia che hanno volti familiari, alle quali bisogna forse dare soddisfazione, ma certamente, in qualche modo, bisogna rendere conto.
Un’ombra –la più nitida, la più maestosa– è quella del padre, Giacomo, maestro della critica delle cose d’arte fatte con parole, costruttore con altri maestri dell’idea di Novecento letterario, esploratore del romanzo europeo e delle relazioni tra la Storia e le storie, la Persona e i personaggi.
Ma nel libro è un’ombra discreta, che si cela o è celata nella conversazione perché una più marcata presenza, con tutto il suo senso di affettività e di valenza culturale, avrebbe potuto essere psicologicamente sovrastante.
È come se Giacomo e Antonio si guardassero da lontano, serenamente, da due opposte sponde, sapendo che li unisce e li stringe qualcosa che è più forte della letteratura, oppure una letteratura che si è impastata con la vita fino al punto da non distinguersi più.