Bruno Gambarotta, Non si piange sul latte macchiato

25-07-2016

Un libro gustosissimo, di Gabriele Ottaviani

Un brivido di raccapriccio corre per la schiena del commissario Donato Garzullo al pensiero di rivedere la moglie del fratello della sua signora, una che fin da bambina quando le chiedevano cosa volesse fare da grande, rispondeva “La vedova”. Fortuna che ha un amico pittore e può scappare ad assisterlo mentre ritrae in tutto il suo splendore Godiberto, il maiale dell’anno. E contemporaneamente magari rilassarsi con una bella scorpacciata, cosa che la sua pertinace moglie vede di buon occhio più o meno come osserverebbe un topo nella dispensa di casa… A cosa serve la poesia, si chiede l’interlocutore del direttore. E sì che lui quella povera ragazza che è stata prima pugnalata e poi soffocata infilandole la testa in un sacchetto di plastica del commercio equo e solidale lui la conosceva bene, scrive… Incomincia a sognarlo una settimana prima di Natale. Tutte le notti. Da anni non dorme più le sue otto, nove ore per sera tutte belle filate come quando era giovane. Una collega si è accorta che quando entrano in un locale la prima cosa di cui si informa è dove sia la toilette, e lui stesso ha iniziato a spargere in giro la notizia che sia socio fondatore dell’associazione Amici della Prostata. Naturalmente non è vero, ma ha per caso con sé dei moduli di adesione… La sequenza degli ordini è: “Motore! Ciak! Azione!”. Questa volta però dopo l’ultimo comando non c’è nemmeno il tempo per il protagonista di aprire bocca o muoversi appena che subito l’operatore grida “Stop!”. Di norma può farlo solo il regista, ma per brevità, se c’è qualcosa che salta subito all’occhio come non corretta, i primi professionisti possono intervenire, per risparmiare tempo e denaro. Mai l’attore, a meno che non sia un divo cui è concessa ogni cosa. E il problema stavolta c’è. Si vede l’ombra del ciakkista… Ha già pronto il titolo, dice. “La lacca che uccide”. Il primo caso mai registrato negli annali della criminalità: un uomo ucciso con la lacca per capelli. Gli hanno tappato il naso e scaricato in gola l’intero contenuto di una bomboletta…

Ottant’anni quasi, e la freschezza di un ragazzino. Sia nella favella, sempre pronta alla battuta, al garbo di un’ironia che non è mai meno che giustamente pungente solo perché elegante e di classe (sabaudi si nasce, verrebbe da dire), che nella scrittura, in cui le caratteristiche di immediata piacevolezza della persona sembrano rispecchiarsi in pieno. Ottant’anni quasi, si diceva, di cui quasi quaranta passati in RAI come autore, regista, conduttore e persino attore in varie serie televisive. Tra cui Una famiglia in giallo e il suo spin-off, Il commissario Manara, accanto all’immarcescibile Valeria Valeri, una verve che da sola vale quella di tutta la mai abbastanza rimpianta e catodica famiglia Benvenuti, lo sceneggiato capostipite delle moderne fiction, nel cui cast, nel ruolo del figlio più piccolo e arguto (e qui l’ironia è quella tragica della sorte), vi era Valerio Fioravanti, poi terrorista nero. È Bruno Gambarotta, intelligenza vivacissima e buon giallista, che scrive storie godibili, semplici, lineari, ben congegnate, che non fanno veder l’ora di capire come vadano a finire, dei polizieschi classici in tutto e per tutto, precisi come una scacchiera, o le intersezioni viarie della prima capitale d’Italia, ma resi speziati dal divertimento che si deve proprio a quella cifra stilistica che si inserisce nel solco di autori come Camilleri, Malvaldi e Nadia Morbelli. Legati ai regionalismi ma al tempo stesso capaci di raccontare l’universale. Il giallo, d’altro canto, è per eccellenza il genere contenitore, un po’ come l’elegia nella classicità, che difatti poteva essere sia erotica che funeraria: attraverso la soluzione di un mistero si cerca di raccontare un po’ di noi, degli umani, catarticamente come nella tragedia, ma con la leggerezza dovuta ad ambientazioni credibili, quotidiane, ruspanti, immaginifiche, come una estemporanea di pittura durante una sagra del maiale, un pranzo di Natale, un cenone di San Silvestro, un castello, una Torino fatta di gianduiotti. È il caso di dirlo: un libro gustosissimo.