Carlo D'Amicis, Maledetto nei secoli dei secoli l'amore

20-11-2008

Un chicco di noi, di Elisabetta Liguori

La casa editrice Manni continua da mesi a spargere piccoli chicchi nell’universo della narrativa italiana. Librettini di poche pagine, ma di grande rigore. Una collana fatta di semi. Qualcosa di intimamente fertile che ho avuto modo di conoscere solo di recente. Tra questi alcune sono autentiche perle.
Maledetto nei secoli dei secoli l’amore di Carlo D’Amicis, ad esempio, lo è.
A mio avviso lo è per due ragioni essenziali:
1)     per la vivacità linguistica e il suo effetto apparentemente straniante
2)     perché racconta in modo fulmineo e originalissimo quello che è il dramma, spesso sconosciuto o misconosciuto, della comunicazione interna alle coppie involontarie.
Ma procediamo per piccoli passi.
La sperimentazione linguistica e sintattica è da sempre uno dei punti di forza della scrittura di Carlo D’Amicis, basti soffermarsi sull’uso che lo stesso fa delle parentesi e della punteggiatura in alcune delle sue pubblicazioni precedenti, tra le mie più amate, come Amor Tavor per PeQuod o Escluso il cane per Minimumfax. In queste opere le parentesi tonde, che a volte si dilatano in maniera sorprendente, rappresentano il cuore pulsante della narrazione. Non hanno funzione pausativa o specificativa - o non solo quella - ma sono l’emozione che si fa curvilinea. Sono storia dentro la storia. Buco emotivo scavato dentro il plot. Singulto che non ha alcun legame grammaticale con il corpo del romanzo, ma solo sostanziale. Espressione chiara, quindi, di un contrasto, di un dubbio, di una paura. Nel chicco pubblicato per Manni, D’Amicis fa di più: elimina anche i punti e ci lascia respirare solo grazie a qualche contenuta virgola. Questa scelta sintattica rende il discorso concitato, affannoso e lo conduce scientemente ad una rapida brusca necessaria conclusione. Ma laddove non c’è il punto, ecco che subentra la sospensione angosciosa della parentesi tonda, che s’apre e si chiude a fatica come la bocca di un pesce fuori dall’acqua. La scelta tecnica è consapevole. Dolorosa. Racconta sapientemente lo strazio di una comunicazione impossibile e produce risultati sorprendenti.
 
“Caro cugino, mi dicono che parlarti aiuta (ora mi viene il dubbio : te o me, aiuterebbe?), in ogni caso mi dicono di parlarti e io ti parlo anche se parlare a un uomo in coma non è semplice, non tanto (molto poco, quasi niente)…”
 
Questo è l’incipit del Chicco di D’Amicis e, come è facile intuire, il problema della comunicazione sembra essere una delle chiavi di lettura più importanti del testo. I personaggi di questa storia sono due: Lady Mora, cinica donna dark dal cuore di pietra e dalla disarmante ironia, e il di lei cugino, l’uomo che la ama da sempre senza esserne riamato e che ora versa in stato di coma profondo, ormai trasformato in una sorta di interlocutore muto ad impulsi elettrici, di censore vano, di assurda ipotesi di un futuro ormai impossibile. Qui i livelli di comunicazione sono due: 1)quello di Lady Mora, donna Casa (di-mora) e donna irraggiungibile, con suo cugino innamorato e cieco, 2) quello tra scrittore e lettore, entrambi attoniti dinanzi a questo monologo, che vorrebbe essere un dialogo, ma non può più esserlo. Fra due amanti, ma anche fra due non – amanti, coppie involontarie, come dicevamo, comunque legate da un filo (amore, odio, fastidio, ossessione, parentela o altre possibilità), esiste un codice di comunicazione esclusivo. Faccio un esempio. Quando si entra in una stanza in cui ci sono due individui tra loro legati, lo si sente serpeggiare quel codice, se ne può percepire il flusso diretto di parole, di silenzi, concetti già espressi, domande risposte sempre le stesse. Non si sa nulla di quei due, della loro storia, del loro carattere, ma se ne percepisce il senso, nonostante il codice resti esclusivo, incomprensibile agli altri. Si può solo intuire che c’è, ma non utilizzarlo. Ecco, nel Chicco di D’Amicis quel codice serpeggia sinistro. È pienamente utilizzato eppure segreto. Così che ogni affermazione di Lady Mora, dolorosa, ironica, crudele, nostalgica che sia, appare come rispondente ad un codice privato, lontano e consolidato, ma irresistibile. Il lettore ne resta fuori, ma ne è attratto, incuriosito, comunque coinvolto, e più s’intestardisce, più Lady Mora gli appare odiosa, algida, altera, inconquistabile. Il lettore ha l’impressione di ascoltare qualcosa che non è destinato a lui, e se ne invaghisce. Funziona davvero.
Il lettore diventa Lady Mora e si sforza di entrare nelle sue parentesi tonde più intime. L’amore finisce per diventare ridicolo solo perché lo afferma Lady Mora. Lei che sa. Lei che non crede nell’amore, ma ci vive dentro (di professione fa la cartomante e disillude la gente senza davvero conoscerne il futuro) perché ha nelle sue mani il destino di un uomo, di quello che ne resta. Lei che conosce i codici della vita e della morte. Lei che possiede il segreto delle parentesi tonde che mettono in conflitto il dentro con il fuori, il bianco con il nero. Lei che ha perso l’interpunzione ed è costretta a parlare, parlare, parlare all’amore (così come il cugino scriveva e poi custodiva ovunque bigliettini d’amore, allo stesso modo la sua amata è costretta a ripetere a valanga locuzioni di non amore, per ribadirlo, per sostenerlo). Lei, la maga, che in sé raccoglie i destini di tutte le coppie destinate a non amarsi.