Claudio Menni, Gardo Mongardo

03-07-2007
Una lingua necessaria, di Rossano Astremo
 
Il suo nome è Vinicio Mongardo, ma tutti lo chiamano Gardo Mongardo. Il suo nome dà il titolo al romanzo d’esordio di Claudio Menni, appena pubblicato da Manni nella nuova collana Punto G, interamente dedicata alle scritture contemporanee. Gardo Mongardo può essere definito un romanzo picaresco, nel quale, come vuole la definizione comune, il protagonista, in genere di bassa estrazione sociale, racconta in prima persona le proprie avventure, un susseguirsi di azioni, alcune riprovevoli, altre meno, che non contaminano la bontà del personaggio. Mongardo è un picaro contemporaneo, quindi, un ragazzo di provincia, le cui giornate, almeno all’inizio della storia, trascorrono tranquillamente, tra lavoro, birre con gli amici e abbordaggi continui a ragazze della più variegata specie. Sarà proprio l’amore nei confronti di una ragazza e la conseguente gelosia di Mongardo, dovuto all’atteggiamento ambiguo della stessa, a far precipitare la situazione. Mongardo si mette nei guai. Devo un sacco dei soldi a dei balordi. L’unica alternativa è lasciare Bologna, la sua città, e partire col primo aereo: destinazione Parigi. Qui comincia il vagabondaggio del nostro protagonista, scandito da cambiamenti spaziali siderali, dalla continua ricerca di alcol e sesso, piccole ancore di salvezza di una vita che lentamente sembra sfuggirgli di mano: “Il mondo rotola, il tempo è l’imbuto che ci inghiotte, e l’oblio è l’eco della perduta fermezza”.
Da Parigi fugge in Brasile, e più precisamente a Rio de Janeiro, dove si accompagna ad una combriccola sfasata di italiani in cerca di donne aitanti, poi è la volta di Bahia, dove la vita costa meno, visto il lento diminuire del credito in suo possesso, poi il ritorno, in uno stato pietoso in Europa, nuovamente a Parigi: “Mi sono diretto deciso all’Air France. Ho mostrato il mio biglietto e ho detto: ‘Devo tornare a casa adesso oppure muoio’”. Da Parigi a Cannes, grazie all’invito di una sua vecchia fiamma, Susanne, nella settimana del Festival del Cinema. Mongardo trova lavoro presso un ricco produttore cinematografico, nel bel mezzo di party in compagnia di Uma Thurman, Nick Nolte ed un numero di star davvero spropositato. Le pagine più brillanti del libro sono quelle in cui Mongardo scorazza con Nolte per la città alla ricerca di rum e donne con cui intrattenersi.
Gli incontri, però, non finiscono qui. Mongardo conosce Theo, un commerciante di quadri e gioielli di origine greca. Insieme si recano a Barcellona, poi New York, poi accade l’imprevisto e Mongardo resta solo, è costretto nuovamente a fuggire, in compagnia di un grosso diamante che conserva nel più sacro dei buchi, destinazione Città del Messico, dove viene a sapere della morte della madre, per poi giungere a L’Avana. Meno di duecento pagine ricche di colpi di scena, di spostamenti nello spazio, nei quali Mongardo viene travolto dagli eventi, frequenta la gente più disparata, dalle prostitute ai divi di Hollywood, dai poveri disperati delle periferie cubane ai ricchi faccendieri europei.
A questa tribolazione di contenuti corrisponde una parallela effervescenza linguistica. Non c’è spazio in questo libro per artifici letterari, espressionismi ricercati o quant’altro. A tessere il mondo di Mongardo è una lingua viva, calda e necessaria, senza fronzoli, priva di orpelli, che olezza di vita vissuta. Alla fine del viaggio, come è giusto che sia, ci troviamo dinanzi ad un Mongardo diverso, cambiato, perché no, cresciuto. “Sono orfano e uomo”, scrive Mongardo a conclusione delle sue peripezie. Sintesi perfetta dell’avvenuto mutamento.