Claudio Morandini, Rapsodia su un solo tema

06-08-2010
06/08/2010 – biscottineri.blogspot.com
Su Claudio Morandini,di Luca Dipierro

Claudio Morandini è uno scrittore di cui non fidarsi. I suoi romanzi (tre per ora: Nora e le ombre, Le larve, e Rapsodia su un solo tema, uscito quest’anno per Manni) sono pieni di fatti e personaggi, ma in un certo senso più li guardiamo, e cioè più l’autore ce li mostra, più li copre di parole, i loro pensieri, le loro azioni, e meno i loro contorni sono definiti. La scrittura di Morandini non va mai diritta. Non c’è un obiettivo verso cui tendere, un centro o buco o termine, ma solo direzioni da percorrere, e possibilità, e fantasmi, nel senso di cose che vengono cancellate eppure sono ancora lì, impronte, presenze che si manifestano in corpi non loro.
Il romanzo non ha fine. C’è solo il termine dell'oggetto libro, l’orlo della carta. La scrittura di Morandini è fatta di accerchiamenti, preamboli, di code, di digressioni, in cui i pieni e i vuoti non hanno mai la funzione di rapprendere, ma invece di variare e contrappuntare un tema che ci viene tenuto nascosto. Balena anche la possibilità che questo tema non esista, e precipitiamo in una deliziosa paura del vuoto.
È una sensibilità formale questa che viene a Morandini dal suo essere anche musicista e appassionato di musica. I romanzi di Morandini non sono strade, non cattedrali, e nemmeno case e nemmeno labirinti. Sono foschie. Trame e personaggi vengono moltiplicati e allo stesso tempo dissolti da uno stile fatto di volute e cerchi.
In questa foschia ci si imbatte in ruderi a volte: la grande tradizione del romanzo ottocentesco europeo, una certa linea “eccentrica” della narrativa italiana (Tarchetti, Savinio, Landolfi, Loria, Bontempelli, Delfini, Nievo), il gotico, la saga familiare, il romanzo epistolare, il saggio musicologico, ma gli stilemi e le figure del genere non offrono qui le solite certezze.
Leggere Claudio Morandini è calarsi in un mondo fatto di niente. Non chiedo di meglio ad un libro.

11/08/2010 – La Stampa - Valle d'Aosta
Un romanzo matrioska, di Joëlle Cunéaz

Dopo "Nora e le ombre" e "Le larve" Claudio Morandini firma "Rapsodia su un solo tema" (Manni editore). Un romanzo-matrioska, in cui l'autore alterna, in un esercizio di stile, lettere appassionate a frizzanti dialoghi, pagine di diario a saggi, trascrizioni di pamphlet ad analisi di composizioni immaginarie, per raccontare di musicisti che parlano di altri musicisti che immaginano la vita di altri musicisti, i loro sentimenti e aspirazioni. La rapsodia del compositore russo Rafail Dvoinikov, apparentemente protagonista in realtà sottofondo, evoca istanti, genera riflessioni, scortando i personaggi "su un solo tema": suonata una volta, all'inizio, la musica si fa sfuggente e il sapore dell'attesa tradita dolce-amaro. Il punto di vista è mutevole, ora lieve e fatuo, affidato a Ethan Prescott, ora riflesso dell'amaro disincanto di Dvoinikov, ora divertito e sconcertato. La scrittura risulta sospesa, inconclusa, intrisa di ironica malinconia. Il lettore tuttavia viene soccorso nel finale, inatteso.
01/09/2010 – giovanni.merloni.over-blog.com
L’ultimo romanzo di Morandini, di Giovanni Merloni

Una prima osservazione, giunti a circa metà lettura di “Rapsodia su un solo tema”- che si fa via via più avvincente – è che questo libro non sembra scritto da un italiano, e nemmeno dallo statunitense Ethan Prescott o dal suo compagno Carl Thalberg. E nemmeno da un russo, come il musicista Rafail Dvoidikov o da una russa, come la sua segretaria e assistente Polina.
Una sorta di “spersonalizzazione” - che coinvolge il lettore, passando per la sua pelle, i suoi gesti e comportamenti -, insieme all’accettazione, forse, della mutazione babelica che ci conduce tutti verso una nuova e sconosciuta identità globale, sembra essere la scelta fondamentale dello scrittore Claudio Morandini, autore di questo romanzo di grande interesse, che merita un vasto pubblico di lettori, soprattutto al di fuori del solo, spesso disattento, contesto italiano.
Questa scelta corrisponde, io credo, alla seconda necessità evidente di questo libro : dire la verità, raccontare la storia di un artista puro e geniale che sopravvive al sistema di potere sovietico, dire tutto in modo mai scontato o obbligato. Dire, inoltre, la verità sulla libertà presunta nella quale un musicista più giovane, mentre analizza l’oscuro dossier del mitico compositore russo, rivela al lettore e a se stesso quanto sia diventata difficile la sopravvivenza nel cosiddetto occidente libero, sregolato e postmoderno, che attraversa negli Stati Uniti una fase particolarmente problematica e disperata.
Dire tutto ciò non è facile, ma Claudio Morandini ci riesce, grazie e soprattutto all’understatement con il quale l’io narrante parla e agisce.
D’altra parte il libro contiene una terza sfida, quella di far ruotare ogni riflessione e ogni avvenimento intorno al tema musicale o per meglio dire alla musica tout court, questa idra a mille teste che offre allo scrittore la possibilità di raccontare anzi di ricostruire la verità – la verità di noi tutti e la verità dei nostri tempi - secondo molteplici registri e attraverso numerosi quadri.
Egli scrive un libro che si suppone parli della rapsodia su un tema di Rafail Dvoinikov, un tema insistito, esclusivo e perfino ossessivo – che potrebbe essere inteso come la forza e la disgrazia di questo compositore. In realtà è l’autore stesso che struttura il suo libro nella forma di una rapsodia.
La musica è dunque il vero protagonista del libro ed è anche il pilastro centrale che ne sostiene l’architettura, dalla prima parola all’ultima.
Ma in questo libro c’è anche molto altro.
L’io narrante, il musicista statunitense Ethan Prescott, è un musicista assai creativo, allo stesso tempo  perfettamente integrato in un contesto, che lui stesso chiama “di nicchia”, dove è ormai autorizzato ad interessarsi di un autore russo molto anziano, pochissimo conosciuto in occidente, che ha conosciuto una giovanile riconosciuta grandezza ma non è stato poi capace di aderire supinamente alle richieste di un sistema di potere ottuso e sospettoso come quello sovietico dagli anni 20 in poi: “Dvoidikov, audace sul pentagramma, ha dovuto imparare l’arte di dissimulare il suo carattere, e fingere di essere un prudente esecutore di direttive altrui – senza riuscirvi mai, e in questo fallimento sta la grandezza della sua musica, che oggi possiamo leggere come uno dei massimi esempi di un’arte tanto prepotente da sfuggire allo stesso artefice”.
La storia di Rafail Dvoinikov, ricostruita gradualmente e attraverso una singolare molteplicità di piani narrativi – da quello minimalista e a volte concettoso dei diari di Ethan Prescott a quello emozionato e emozionante degli incontri a casa del musicista russo, in presenza della inquietante segretaria e interprete Polina; da quello delle proiezioni sul presente di possibili contaminazioni e tresche artistiche con la musica techno a quello dei resoconti di viaggio di un contemporaneo di Mozart e Gluck che ha l’ardire di frequentare auditorium e sale di incisione del ventesimo secolo – cessa ben presto di essere soltanto o soprattutto la storia dell’autore dell’”Antisinfonia”, o “Sinfonia numero zero” e di altre opere innovative.
Non è solo Dvoidikov, con la sua vicenda terribile ma ostinatamente vitale, a battere su un solo tasto, o se si vuole su un solo tema. E’ lo stesso Ethan, catturato dal viaggio intercontinentale che lo catapulta su uno scomodo treno pendolare della Russia post-sovietica aprendo la strada di una dolorosa ricerca del senso della propria esistenza e di se stesso, è lui, insieme a Claudio Morandini, l’autore di una rapsodia su un solo tema, cioè di un canto complesso la cui fondamentale esigenza è quella di non perdere mai di vista l’importanza “centrale” della vita.
Inevitabilmente, e per fortuna, l’artista stanco per questa incorreggibile “incomunicabilità” tra le proprie aspirazioni espressive e comunicative e il pubblico disattento e ostile - stanco altresì per la difficoltà di trovare degli interlocutori che non siano muri o voci sepolte in vecchi libri o antichi spartiti -, cerca e trova negli incontri importanti o occasionali che la vita gli procura una ragione per continuare, per insistere, per sperare.
L’elemento nascosto di questo bel romanzo, è dunque nella natura tragica dell’io narrante, Ethan Prescott, la cui omosessualità, vissuta quietamente fino agli ultimi capitoli, diventa essa stessa la causa di una ancor più grave incomunicabilità, quella di non poter aderire a un sentimento contraccambiato. Ed è questo un risvolto costante nella vita di tutti noi, un anello fragile che ci fa immediatamente cogliere, da lettori, la drammaticità di un malinteso quando sono in gioco passioni profonde e sincere.
Ritengo che Claudio Morandini, con questa dolorosa conclusione, che finisce per collocare la tanto glorificata musica-ragion-di-vita in una prospettiva di ridimensionamento. abbia voluto dire : Forse la gloria non arriva mai, la vera gloria non è di questo mondo, è una cosa che capita sempre agli altri, come la morte precoce. Lo dimostrano le eterne competizioni, le gelosie e invidie che da sempre hanno spesso offuscato grandi geni lasciando, almeno nella contemporaneità, il posto ai mediocri, ai venduti, eccetera. Ma, attenzione, se poi la gloria viene a cercare proprio noi, decide un giorno di corrispondere al nostro amore inesausto, alla nostra corte interminabile e irta di capolavori… bisogna essere pronti!
Poco importa se la gloria ci arride perché siamo bravi o siamo belli e affascinanti o per tutte queste cose insieme. Possiamo suscitare l’amore di qualcuno a cui abbiamo dedicato delle attenzioni. E la gloria, che nel libro si chiama Polina, si può innamorare, convincersi, essere pronta, desiderare di essere rapita, portata via, se non ancora, immediatamente, cavalcata.
Ethan Prescott non può amare Polina perché è omosessuale. Ma la passione che ha scatenato in questa donna non può renderlo tranquillo. Si ripropone la distanza tra l’artista desideroso di comunicare e il mondo indifferente e ostile. Si spezza la più grande e incoercibile illusione della nostra formazione letteraria, forse non è più vero che « amor ch’a nullo amato amar perdona ».
E si apre una ultima riflessione, totalmente ribaltata, dopo la lettura dell’ultima pagina prima della post-fazione. Forse siamo noi stessi la gloria, perché la gloria l’abbiamo sempre avuta. E se non siamo in grado di darla a chi ci ama non possiamo pretendere di averla da chi non ci ama.

12/10/2010 – mariluoliva.splinder.com
Morandini, di Luca Bertolozzi

Innanzitutto dobbiamo riconoscere a Claudio Morandini i suoi meriti. Rapsodia su un solo tema è un romanzo oltre che ben scritto ben orchestrato, che trasmette molte più emozioni e concetti di tanti altri libri di autori di maggiore successo. Non uso a caso una metafora musicale, giacché il romanzo parla effettivamente di musica e più precisamente del rapporto tra la vita e l’arte, della libertà dell’artista da tutta una sorta di vincoli sia storico-politici, sia linguistico-formali da cui nessuno può prescindere. Anche formalmente il testo ricorda una partitura sinfonica, o se preferite una rapsodia, composto com’è di materiale eterogeneo, che tuttavia si integra perfettamente a formare un racconto e un discorso sulla musica che procedono paralleli. Ci sono brani tratti dal diario di Ethan, il compositore statunitense che decide di scrivere un libro sul suo anziano e dimenticato collega russo: Rafail Nicolaevich Dvoinikov. Anziano sì, ma brillante e straordinario autore di opere assolutamente originali, che Ethan stima moltissimo. Ethan è il protagonista, gay dichiarato convive con Carl, un pianista jazz più anziano di lui. Accanto al diario di Ethan, il filo conduttore del romanzo, ci sono diversi altri brani, sempre – ed è bene precisarlo – totalmente inventati, tra cui i verbali delle udienze della famigerata Commissione dei Musicisti di Stato presieduta dall’inetto quanto spietato Vladimir Galavamov, alle quali Dvoinikov deve sottoporsi periodicamente. Inoltre ci sono i resoconti degli incontri con Dvoinikov e la sua premurosa assistente Polina. Infine dalla metà in poi del romanzo il testo è inframmezzato dalle lettere, attonite quanto esilaranti, tratte da un romanzo attribuito ad un certo Joseph Mathias Mayer, che un compositore di corte tedesco del ‘700 che compie un viaggio immaginario nel nostro secolo e nella musica contemporanea scrive ad un amico musicista. Queste ultime hanno il solo scopo di proseguire il discorso sulla musica del ‘900 a cui Morandini tiene particolarmente. Infine c’è la postfazione, a cura di Carl, vero redde rationem del libro, in cui tutte le trame, tutti i fili che si dipanano nel corso del romanzo trovano composizione.
Ma il romanzo di Morandini non si esaurisce in una storia triste e in un viaggio a tratti affascinante nella musica colta del ‘900. Morandini va ben oltre. Mentre leggiamo Rapsodia ci coglie un sospetto che mano a mano diventa sempre più fondato, e cioè che il vero tema del romanzo non sia la musica ma la violenza. E non parlo solo della violenza grottesca e cieca del bieco persecutore Galavamov, ma di una violenza di cui è intrisa la scrittura stessa di Morandini. Nei precedenti romanzi la violenza sia psicologica che fisica e persino la ferocia erano dichiarati, facevano parte del gioco, di un patto implicito con il lettore. In questo libro non è così: non vi è nulla, dal titolo alla trama che la possa richiamare. Eppure c’è, impetuosa e solenne come un basso continuo. Una violenza sommessa, dissimulata, intrisa di storia e di psicologia, ma tenace, inevitabile, inesorabile.
Morandini scrive con il bisturi, incidendo la carta virtuale, come fosse carne, con profondi solchi. Ogni frase è un’incisione profonda e netta, sine ira, sul cadavere che lui stesso sta sezionando sotto i nostri occhi.
(…) Alla fine cosa rimane di un romanzo complesso, giocato su diversi piani e aperto a più interpretazioni, in cui sicuramente l’estetica musicale gioca una parte importante al punto che uno dei personaggi dice, riferendosi ai nostri tempi: “triste è l’epoca in cui le istruzioni e i proclami estetici si leggono con maggior gusto di quanto si apprezzi l’opera in sé”, e di cui la mia è soltanto una delle molte possibili? Alla fine rimane la catarsi. Il gioco violento scompare, rimane il terrore dello squallore morale, della corruzione che coinvolge tutto e tutti, l’orrore del tempo che seppellisce e trasfigura tutto, e per quanto ci agitiamo, per quanto facciamo, alla fine non siamo che suoi schiavi. Forse è questa la vera, autentica ferocia contro la quale si scaglia Morandini. E la violenza che nasce da questo scontro metafisico è una lava rovente che si deposita nelle pagine del romanzo e lentamente si raffredda fino a raggiungere la temperatura di una voce umana che urla impotente contro l’infinito.

18/10/2010 – annessieconnessi.net

 
“Compositori che parlano di altri compositori che parlano di altri compositori ancora”, così dice la quarta di copertina di questo libro di Claudio Morandini, Rapsodia su un solo tema - Colloqui con Rafail Dvoinikov. Ammettiamo di essere partiti un po’ con la sensazione di andare a leggere qualche cosa di molto serio, un saggio sulla musica e una biografia di un compositore che, confessiamo, non avevamo mai sentito prima. Quando lo abbiamo mostrato agli altri della Legione, molti nasi si sono arricciati, non di sufficienza o scetticismo (mai!) ma di senso di inadeguatezza: la mancanza di preparazione sul tema ci avrebbe permesso di arrivare a capire l’opera fino in fondo?
La risposta è stata: sì, siamo rimasti piacevolmente smentiti su tutti i fronti di dubbio.
E’ un libro incentrato sulla musica, è chiaro, e in molti tratti si scende veramente nello specifico, ma la nostra ignoranza in materia non ci ha precluso la lettura, anzi, ci ha incuriosito, facendoci venire voglia di approfondire e capirne di più.
E poi, attorno alla musica si sviluppa un corollario narrativo veramente singolare, per la forma e contenuti.
L’autore con abilità e creatività ricrea una sorta di raccolta documentale di frammenti attorno agli incontri del protagonista, Ethan, con il compositore russo, il suo diario, trascrizioni di documenti, analisi di composizioni, in un caos soltanto apparente, che intervalla la narrazione biografica del compositore con le annotazioni dell’intervistatore.
Il tono, poi, è tutt’altro che serioso: in particolare gli stralci di diario scendono nella vita comune con una ironia così misurata e calibrata da risultare perfetta. E’ curioso anche l’uso delle note a piè di pagina, vengono utilizzate come incisi, a volte come annotazioni del protagonista indirizzate a sè stesso, a volte come postille per il lettore, a volte come parentesi e digressioni sul tema principale.
Sebbene il libro spacci sè stesso come un omaggio ad un grande compositore russo bistrattato e ignoto ai più, di fatto l’autore presenta come protagonista assoluto Ethan, l’intervistatore, al contrario di molti altri romanzi con lo stesso espediente narrativo (ad esempio Intervista con il vampiro) in cui l’intervistatore sparisce in favore della storia raccontata. Ethan invece, inframmezza tutto, anche le stesse parole riportate di Dvoinikov, con le sue osservazioni e le sue note.
Infine, ma non per importanza, la prosa. Semplice, ricca di ritmo, ma grammaticalmente elaborata e complessa, con periodi lunghi ma sempre sicuri e precisi, segno di evidente abitudine con la parola scritta.
Una nota anche per l’edizione: perfetta, non abbiamo trovato un solo errore di battitura, un refuso di stampa o altro, e di questi tempi è quasi un miracolo anche per le case editrici più famose.
Insomma, un volume degno di nota e di lettura, anche da parte di chi la musica l’ascolta soltanto e la ama, in qualunque forma appaia.
 
 
 
28/04/2011 – www.paradisodegliorchi.com
Succulento, di Giovanna Repetto

La caratteristica più impressionante di questo romanzo è la verosimiglianza. La scrittura efficace ma discreta (proprio come l’eleganza vera, che quando c’è non si fa notare) funziona come un vetro pulito, la cui trasparenza lascia credere che non vi siano barriere fra lo spettatore e la scena. Finisce che il lettore si strugge nello sforzo di discernere il vero dall’invenzione, perché se sulla copertina c’è scritto romanzo, c’è anche il sottotitolo Colloqui con Rafail Dvoinikov, che fa comunque pensare a un riferimento preciso. E’ dunque la storia romanzata di un musicista vero? O la storia vera, perché emblematica, di un personaggio inventato? Di sicuro ci sono i riferimenti storici, la Russia stalinista che mette i brividi, proprio la stessa che conosciamo da tante testimonianze. La traccia è semplice: un musicista americano, Ethan Prescott, va a intervistare un vecchio collega in quella che ormai è l’ex Unione Sovietica, e ne ricava una serie di appunti e di riflessioni che intende sviluppare in un libro. E’ l’occasione per incontrare personaggi indimenticabili. Oltre al vecchio musicista a cui la cecità non ha tolto lo spirito d’osservazione, né le persecuzioni subite hanno fatto venir meno l’ironia, c’è la dolce Polina, fedele assistente e traduttrice, la cui femminilità riesce a mettere per un momento in crisi la solida omosessualità del protagonista, che ha lasciato in patria un compagno attempato e teneramente nevrotico (e per buona misura jazzista). Poi ci sono personaggi che si possono incontrare solo attraverso i racconti del vecchio, ma non per questo sono meno incisivi. Su tutti si staglia Galavamov, musicista mediocre che grazie allo stalinismo ha potuto trasformare il suo livore in una raffinata tecnica da aguzzino. (A me personalmente ha ricordato il famigerato Chauvelin, che nelle mie insane letture adolescenziali tormentava la Primula Rossa).
Direi che la forza di questo libro sono le note, e lo dico nel doppio senso della parola. Le note che l’intervistatore Prescott mette al margine dei suoi appunti e del suo diario ravvivano continuamente il testo con commenti estemporanei, tecnici o attinenti alla sfera privata, conferendo un senso di immediatezza, di sincerità a volte irriverente, e comunque dando veridicità a quella dimensione transitoria che ci si aspetta da appunti elaborati in corso d’opera. Mi viene in mente che se Morandini fosse un pittore sarebbe forse un esperto nel trompe-l’oeil. Non da meno, nel senso della credibilità, sono i verbali degli interrogatori e i racconti del vecchio Dvoinikov.
E veniamo alle altre note, quelle musicali. Morandini ha una rara capacità di descrivere (o forse bisognerebbe dire riprodurre) la musica con le parole.
Quella lunga, meditativa melodia che attraversa tutto il brano ora fluttua tra il si minore e il si bemolle maggiore, generando conflitti dissonanti di un’asprezza disperata con gli accordi di re, che ora sono assieme maggiori e minori e si dilatano verso intervalli estranei. La dolente cantabilità del tema come io lo conoscevo – come lo conosceva il mondo - e amavo, ora si dipana ferita, aliena, del tutto priva di indulgenze, macabra più che patetica. Eppure, nei rari momenti in cui il tema abbandona l’ostico si bemolle per spostarsi nel si minore, si apre a consonanze di una dolcezza senza pari, che risuonano più strazianti proprio perché così rare, così reticenti.
Brani come questo, credo, sono tali da dare piena soddisfazione ai conoscitori di musica, che vi trovano riferimenti precisi, ma anche di dare suggestioni (parola mia) a chi di musica è assolutamente digiuno.
Davvero questo libro, giustamente paragonato a una matrioska, è una specie di scrigno delle meraviglie, da cui vengono fuori storie e frammenti di storie, fra cui perfino un racconto di fantascienza scritto da un musicista del Settecento. A volte sono frammenti piccolissimi e gustosi, come il dialogo con il DJ Kosmo, ignorante rimbambito dalla techno, dove l’umorismo, materiale sempre presente nell’amalgama del testo, ha il suo momento di apoteosi.
Alla fine, dopo un’appagante lettura, restano due impulsi urgenti da soddisfare: cercare a qualunque costo notizie di Dvoinikov, per sapere se esiste, e subito dopo, fallita la ricerca, domandarlo direttamente all’Autore.
Intervista all’Autore
Cominciamo dunque con la domanda più assillante: è mai esistito un musicista a nome Dvoinikov, o comunque un personaggio reale nascosto dietro quel nome?


Rafail Dvoinikov non è mai esistito. La sua è una biografia immaginaria, come immaginari sono tutti gli altri personaggi maggiori del romanzo, da Prescott a Galavamov a Klyuev… Le vere personalità storiche rimangono defilate, sono citate qua e là, magari nelle note a piè di pagina, ma non entrano mai da personaggi nel romanzo.

E io che l’ho perfino cercato su internet…

Se qualche lettore ha pensato a Dvoinikov come a una figura reale e ha cercato informazioni su di lui, e magari le sue musiche, non può che farmi piacere. Vuol dire che il personaggio è vivo, è verosimile. Anche a me piacerebbe ascoltare le sue composizioni – mi accontento di quelle dei compositori a cui mi sono rifatto.

Qualche esempio?

Innanzitutto Shostakovich e la scuola che si è formata attorno a lui, in particolare Galina Ustvolskaya (il suo “Concerto per pianoforte, archi e timpani” del 1947 avrebbe potuto essere opera di Dvoinikov, e la sua vita nell’isolamento fino a una tardiva riscoperta sembra proprio quella del mio personaggio). Citerei ancora l’ultimo Stravinsky, quello che si accosta un po’ legnosamente alla serialità. E poi tutti quei minori e minimi del Novecento sovietico che si sono barcamenati tra esigenze celebrative e prudente espressione di uno stile personale: Dvoinikov (che in fondo per sua natura è un minore, nonostante Prescott cerchi di dimostrare il contrario) è tutto lì, in quelle tirate retoriche in cui talvolta, quasi per caso, esplode l’imprevisto, sfuggono nuclei di irriducibile personalità.

Anche Prescott è musicista.

La musica di Ethan Prescott, il giovane americano, l’ho immaginata sul modello delle composizioni di autori colti e brillanti come John Corigliano e Ned Rorem.

Si ha l’impressione che la musica occupi un posto molto importante nella tua vita.

Ho con la musica un rapporto stretto: in passato l’ho praticata, l’ho studiata, anche se non sistematicamente quanto avrei dovuto; ora mi limito ad ascoltarla, collezionarla, pensarla. Sulle revisioni e le trascrizioni che lo stesso Stravinsky ha dato delle proprie opere mi sono laureato, molti anni fa – ecco una prima fonte del mio Rapsodia su un solo tema, forse la più importante.

C’è un rapporto fra il tuo modo di sentire la musica e la tua creatività letteraria?

Rifletto spesso sul senso che ha la musica per me, o sul mio approccio alla musica. Essenzialmente la “sento” come una struttura, come un complesso sistema di relazioni e di contrasti, come un’articolazione di rimandi interni ed esterni, come una sintesi tra controllo e caso. Tendo a sentire allo stesso modo anche un’opera letteraria; o meglio, quando scrivo tendo a organizzarmi seguendo un’idea di sviluppo che potrebbe assomigliare a quella di una composizione. Se non altro, mi piace pensarlo.

Nella mia ingenua ricerca su Dvoinikov ho seguito tracce che mi hanno riportata a te. Ho trovato addirittura un commento a una sonata di Dvoinikov, tratto dalle carte inedite di Prescott. Mi sembra che per te sia diventato una specie di gioco.

Mi sono affezionato a Dvoinikov e alla sua musica immaginaria, e soprattutto a Prescott e al suo sguardo analitico e insieme ammirato sulle composizioni del vecchio russo. Così ho cominciato a disseminare qua e là sul web pagine che non erano entrate nel romanzo per motivi di equilibrio e di spazio, o che mi sono venute in seguito. Detto tra noi, mi piacerebbe farlo ancora, ho pronte altre due o tre paginette su composizioni immaginarie. È un gioco, sì, in cui alimento l’equivoco sull’esistenza di Prescott e Dvoinikov attribuendo al primo pagine che sono mie. La mia voce e quella di Prescott in fondo si assomigliano molto. E la natura frammentaria e incompiuta del romanzo si presta a questo tipo di proliferazione.

E il personaggio di Galavamov? Certamente Dvoinikov e Galavamov sono due prototipi, ma potrebbero corrispondere a persone precise su cui ti sei documentato.

Ti dirò, nell’immaginare Galavamov mi sono mosso con un’irresponsabile libertà. All’inizio avevo in mente soltanto una figura di cattivo, un persecutore cocciuto e mediocre. Le storie, è banale dirlo, hanno bisogno di cattivi. La particolare ambientazione storica mi ha spinto a far vestire a Galavamov i panni del burocrate, e ne ho fatto il capo di una di quelle commissioni che affliggono con i loro diktat gli artisti in ogni regime da sempre. Man mano che andavo avanti nell’immaginarlo, e nel dotarlo di una biografia, mi sono reso conto che ne stavo facendo una specie di “doppio” malvagio, al centro di un gioco di specchi che duplicava quella che era stata la storia dell’Unione Sovietica. La sua Commissione dei Musicisti è un doppio immaginario della vera Unione dei Compositori. Lui stesso è un duplicato (e insieme una caricatura) di figure come Zhdanov e Khrennikov – di quest’ultimo soprattutto, con la differenza che Khrennikov era un compositore non spregevole, mentre Galavamov è proprio dozzinale, se non peggio. Proprio per questi motivi, qualcuno mi ha fatto notare che Galavamov è una figura di persecutore a modo suo “gotica”.

Anche i verbali degli interrogatori hanno l’aria di documenti veri.

Li ho scritti di getto, basandomi su reminiscenze di quanto avevo letto molti anni fa. Sono state le pagine più facili di tutto il romanzo. Galavamov in fondo era già lì, pronto, rappresentava tutto quello che mi spaventa di più in una persona che ha del potere. Mettermi nei suoi panni e scoprire quanto sia facile infierire su un innocente, quanto sia facile e anche divertente accanirsi nell’esercitare un potere coercitivo anche in assenza di reali motivazioni, mi ha inquietato. D’altra parte la storia, quella vera, da sempre è prodiga di esempi di questa tenace dedizione alla crudeltà. Solo con le stesure successive ho integrato i miei interrogatori con dettagli desunti da testimonianze vere, come le lettere di Shostakovich o gli scritti del pianista Heinrich Neuhaus. Ma non ho dovuto cambiare gran che: sia perché mi interessava mantenere una colorazione grottesca, tra farsa e tragedia imminente, sia perché gli interrogatori sono davvero più o meno così, se non peggio.

L’aspetto che mi ha forse più impressionata nel libro è la grande verosimiglianza, per cui finivo per calarmi nel testo come in una vera biografia. Se è tutto finto sei davvero, come dico nella recensione, un maestro del trompe-l’oeil.

Volevo proprio giocare insieme con il lettore attorno a questo equivoco. “Rapsodia” sin dal titolo e dal sottotitolo “finge” di essere qualcosa che non è. Anche l’immagine della copertina, così severa, sembra rimandare a un trattato o a una biografia più che a un romanzo. E anche le prime pagine di quell’introduzione che vuole parodiare pagine analoghe di un saggio musicologico, sembrano alimentare l’equivoco, spero senza affliggere troppo il lettore o scoraggiare nessuno. Basta poco per accorgersi che Rapsodia è un romanzo, e che la minacciata severità è in realtà leggerezza (ironica e malinconica).
Credo poi che a rendere verosimile ciò che racconto ci sia anche quella certa dose di incompiutezza che è propria della vita. Non viviamo trame da romanzo, le nostre esistenze così come sono sarebbero pessimi plot. In Rapsodia non assistiamo proprio ad avventure, e nemmeno a intrecci. Le vite dei personaggi si trascinano senza grossi colpi di scena (se escludiamo le ultime pagine), talvolta girano un po’ a vuoto, finiscono per assomigliarsi… Più che le vite, è l’incastro delle pagine e il montaggio dei piani temporali a rendere vivace la lettura. Certo, poi c’è stato il lavoro di documentazione, ma ti assicuro che per me non è stato così centrale, anche perché Rapsodia su un solo tema non è propriamente un romanzo storico, e non volevo che lo diventasse.

Come è nata l’idea del romanzo?

Avevo in mente (da un bel po’ di anni) di scrivere una storia sulla falsariga dei dialoghi che il vecchio Stravinsky ha avuto negli Stati Uniti con Robert Craft. Mi è sempre piaciuta la forma dialogica, soprattutto quando si confrontano due personalità diverse; e mi interessava in particolare dare vita a un personaggio di vecchio compositore, che parla a ruota libera, si concede qualche malignità, è colto da amarezze e malinconie, talvolta diventa lubrico e quasi infantile – una figura dimenticata e lontana, però, molto diversa dallo Stravinsky cosmopolita e compiaciuto che si confida con il giovane Craft. Un po’ alla volta, mentre il romanzo prendeva forma, è emerso il tema del condizionamento dell’espressione artistica da parte del potere – di qualunque potere. Era inevitabile che saltasse fuori questo elemento, vista la collocazione storica e geografica di Dvoinikov: ma è stato interessante assistere anche alla presa di coscienza, da parte del giovane americano, dei condizionamenti che impone anche a lui (sottilmente, in modo non cruento, ma non meno compulsivamente) la società di mercato.

E l’altra protagonista, la musica…

Sì, un’altra motivazione alla base del romanzo è stata il desiderio di raccontare la musica, in particolare la musica colta del Novecento: non solo perché “raccontare” (o descrivere, o trasformare insomma in parole) la musica è una sfida affascinante, ma anche perché volevo condividere una passione. Insisto: Rapsodia su un solo tema non è un’operazione snobistica o elitaria, non vuole rivolgersi alla sola ristretta cerchia di melomani e tener lontani tutti gli altri. Per me la musica di Prescott, Dvoinikov, o meglio di tutti i compositori che hanno ispirato queste figure, è fonte di stupori e piaceri da cui vorrei che nessuno rimanesse escluso.

Che pensi dei rapporti fra le diverse forme artistiche, come la letteratura e la musica?

È un tema su cui continuo a riflettere, sull’onda del romanzo, ma anche perché su 'Letteratitudine' Massimo Maugeri mi ha invitato mesi fa ad animare un forum proprio sui rapporti tra musica e letteratura. Credo di avere una natura portata a cogliere le sinestesie. D’altra parte, se non avessi creduto nella capacità della parola scritta di suggerire la musica, sia pure con molta approssimazione e un uso abbondante del linguaggio figurato, non avrei scritto Rapsodia su un solo tema. Allo stesso tempo, però, tendo a vedere le forme artistiche come separate da una sorta di irriducibilità dei diversi linguaggi, anche se la collaborazione tra le diverse discipline ha dato luogo a ibridi eccelsi (la musica vocale, il melodramma…). La musica, soprattutto, la concepisco come un’arte che esprime essenzialmente se stessa, che basta a se stessa. Sono note, solo note (lo faccio dire anche a Dvoinikov, più di una volta). Non sono immune però da un approccio diciamo più sentimentale alla musica. Prescott dà voce nel romanzo a questo approccio che non esclude il contributo emotivo di chi ascolta.