Edoardo Sanguineti, Ritratto del Novecento

29-05-2009

Del '900 butto Pasolini e i Beatles e tengo Gozzano e i Rolling Stones, di Paola Zanuttini

Genova. Come fa un poeta e fine intellettuale a fratturarsi l’acetabolo, incavo del bacino sconosciuto ai più? Ovvio, cadendo dalla scala su cui è salito per scovare un libro introvabile tra i suoi scaffali oberati di cultura. A gennaio è successo a Edoardo Sanguineti che ora, reduce da un travagliato decorso, si presenta in cucina con le stampelle e il consueto profilo che vira sull’aquilotto, implume. Pallido, convalescente, ancora più magro. L’infermiera dell’ospedale venuta a medicarlo attacca un benevolo sfottò sulla fragilità maschile di fronte alla malattia: «Professore, se la riproduzione della specie fosse stata affidata agli uomini, ci saremmo estinti». La moglie Luciana, 55 anni di matrimonio, apprezza molto la battuta, mentre il professore, con un filo di voce, la butta sull’antropologico: «In molte civiltà primitive, vediamo l’uomo mimare i dolori del parto per attirare su di sé gli influssi maligni e proteggere la madre e il nascituro». Ma non convince tanto.
È appena uscito Ritratto del Novecento, raccolta dei materiali preparatori della fortunata iniziativa bolognese in cui, dal 12 al 16 dicembre 2005, Sanguineti ricostruì, per il nutrito ed entusiasta pubblico della Sala Borsa, il secolo appena trascorso. Con un mosaico multimediale di cento protagonisti e centinaia di comprimari: da Freud a Ford, da Lenin a Musil, da Benjamin a Kerouac, da Marinetti a Le Corbusier. È un libro strano perché, oltre a un’illuminante prolusione dell’autore, non ci sono altri testi se non le lettere dattiloscritte ai suoi collaboratori con la segnalazione dei brani letterari, musicali o cinematografici da inserire. Dalla riga tot alla riga tot, dal minuto tot al minuto tot. Al massimo qualche illustrazione.
Ma che libro è un libro senza testi?
«Un manuale. Mi è giunta notizia di gente che vuole utilizzarlo nelle scuole e nelle università. Neanche nelle antologie si legge tutto, si seleziona. E frugando nel mio libro si possono scoprire un bel po’ di legami, connessioni, rimandi».
Lei ha diviso il Novecento in quattro filoni: la psicoanalisi, il montaggio, le avanguardie e la lotta di classe. Ci spieghi i legami, le connessioni, i rimandi.
«I secoli non cominciano allo scoccare della mezzanotte e io inauguro il mio Novecento con il 1899, anno in cui Freud pubblica L’interpretazione dei sogni. La scoperta dell’inconscio mi sembra un elemento fondamentale, come lo è il montaggio, tecnica legata al cinema, altro carattere forte del secolo, che coinvolge tutte le altre forme espressive. Con il cinema si scopre che il montaggio è tutto: muore la sintassi, l’idea di ordine, armonia e costruzione stabilita dalle classi dominanti».
Un momento, mancano ancora le avanguardie, prima di arrivare alla classe di classe.
«Ma lo vede che tutto si tiene? Il Novecento sovverte l’ordine».
Lei cita ripetutamente i manifesti delle avanguardie e dei movimenti artistici: perché oggi nessuno scrive più un manifesto?
«Perché non ci sono più movimenti ideologici. L’ultimo che segnalo è quello cinematografico di Dogma di Lars von Trier: un manifesto fatto per essere trasgredito, dal suo autore in primis. Nessuno si preoccupa più di cosa fare della letteratura, della società, della cultura».
E come si organizza oggi la cultura?
«Non si organizza più, è solo commercio. In una località che non c’entra niente col merluzzo, si fa la sagra del merluzzo. Tutti si mettono in costumi falsi, ballano balli falsi, la tv li riprende e sono tutti contenti».
La vedo apocalittico, meglio alleggerire. Perché non ha inserito nel suo Novecento i Beatles?
«Perché dovevo scegliere. E ho scelto i Rolling Stones».
Più cattivelli?
«Eh, sì. I Beatles sono baronetti. Troppo garbati».
A questo punto proponiamo al sistematizzatore del Novecento una sorta di gioco della torre: chi porterebbe nel Duemila e chi lascerebbe a casa? Ma la signora Sanguineti comincia a pigolare: «Porta il mio, porta il mio!» e tira fuori un ritaglio di “Repubblica” con la notizia che in Russia c’è gente che vuole far santo Stalin. Interpellata sui motivi del suo gesto, la signora risponde – fra il serio e il faceto, ma non sappiamo in quale proporzione – che quando soffriva di emorragie agli occhi un compagno le portò dalla Russia un busto di Stalin, che lei lo baciò e che ottenne il miracolo.
Il professore la prende da lontano: «Io sono un materialista storico. Mi hanno definito un poeta prestato alla politica, ma è vero il contrario: sono un politico prestato alla poesia. Quindi porto Walter Benjamin, come figura umana, per le sue intuizioni, per la sua critica. E per la sua frase “Io non ho niente da dire, soltanto da mostrare”. Il mio libro è la realizzazione di quella frase».
Il suo disamore per Pasolini è noto, ma nel suo libro lo cita solo come curatore dell’edizione italiana di un film di Paul Morrissey. Proprio nessuna intenzione di portarlo nel terzo millennio?
«Non l’ho amato, era un reazionario spaventoso, detestava la rivoluzione e lo sviluppo borghese, mentre Marx considera la borghesia la prima grande classe rivoluzionaria. Pasolini, invece, era concentrato prima sul mondo friulano, la campagna, l’elegia, il narcisismo, poi sulle borgate romane, e dopo ancora sul Terzo mondo: sempre a caccia di qualcosa non toccato dalla borghesia. La nostalgia di un mondo perduto e incontaminato. Allora molto meglio Gozzano e la sua signorina Felicita».
Addirittura. E cos’altro vuol portare?
“L’odio di classe”.
Non le sembra di esagerare? E poi non è un vecchio attrezzo?
«I proletari non si considerano più tali, perché ha vinto la grande ideologia di destra. Ma gli stipendi degli operai di una volta erano sontuosi rispetto a quelli dei precari di oggi. Sostengo da tempo che il vero mobbing è l’organizzazione stessa del lavoro: oggi ognuno è messo in concorrenza con l’altro, mentre un tempo nelle fabbriche e nelle campagne si formava una forma di solidarietà spontanea. Poi, il cattivo c’era sempre, come Vittorio Gassman in Riso amaro, film che, esteticamente e ideologicamente, è un raro esempio di orrore universale. Ma come si possono mettere le calze nere alle mondine? E poi quando parlano di Neorealismo è sempre il primo che citano, mica Rossellini».
Fuori Riso amaro e dentro Roma città aperta?
«Mi pare chiaro».