Gianfranco Fabbri, Stato di vigilanza

12-01-2007
 Una serena malinconia, di Giacomo Cerrai 
 
Supponevo, aprendo il nuovo libro di Gianfranco Fabbri (Stato di vigilanza, Manni Editore)  che  forse non avrei ritrovato quella particolare atmosfera che mi aveva colpito leggendo Album italiano (Campanotto, 2002), la felicità narrativa, il viaggio anche metaforico, la familiarità dei luoghi, il lirismo un pò periferico, il  treno anche come occhio che scorre sul paesaggio, che richiama in certi punti topici, come ebbi a dire, il Giudici di La stazione di Pisa, ma anche, direi ora, su un altro versante letterario, il Cassola (qualcuno ricorda Cassola?) di Ferrovia locale. Qualche indizio, raccolto in parche anticipazioni in rete, diceva che lì c'era la serena malinconia di chi perlustra un mondo quasi disabitato ma nostro, riconoscibile, umanizzato, in qualche modo parte della nostra identità anche storica; qui c'è il riconoscimento per indizi del mondo come teatro del dolore, della difficoltà del vivere e dei rapporti; e c'è il conseguente tentativo, che è l'impresa principe della poesia, di dare un senso a tutto questo con la parola, farne una sua rivendicazione di verità, come direbbe Gadamer.  Del resto, Gianfranco ci avverte: ”Si riparte secondo una logica diversa”, fin dall’inizio del libro.
C'è questo, ma anche molto di più, un libro complesso pur nella sua ampia leggibilità, come un marmo percorso da venature scure, che sono tòpoi, isotopie, ricorrenze.  Per abitudine leggo, quasi tutto d'un fiato; poi rileggo. Il primo impatto è un suggestivo connubio di pathos/patologia, il primo quasi nella sua accezione classica, aristotelica, di sofferenza o dolore, ma anche e contemporaneamente di artificio retorico di persuasione, di elemento tragico che coinvolge il lettore; la seconda nel senso di disagio, ma anche e insieme di accostamento a questa sofferenza o malessere anche attraverso la parola, il discorso, la cognizione, appunto, del dolore.
E' difficile sfuggire a questa sensazione, ma anche al sospetto che essa sia fuorviante, sotto certi aspetti. Tuttavia, già il titolo stesso sembra suggerire una qualche voluta ambiguità di significato, uno stato di vigilanza rivolto certamente  al mondo, alla realtà, agli accadimenti, nel tentativo di tenerli poeticamente sotto controllo; ma anche una condizione limbica, post traumatica, la veglia di un coma che non si arrende al rude stream della vita. Mi sono chiesto, da questa prospettiva, se fosse un caso la ricorrenza abbastanza fitta nel testo di termini medici o di ambito semantico analogo: non solo coma e stato di coscienza, presenti in una curiosa ripetizione con varianti di un stesso testo, ma  anche corpo, digestione, morte apparente, sinapsi, border-line, auscultare, tranquillante, tavor, svenimento, febbre, serenase e altro ancora. Ma Fabbri è poeta troppo fine per lasciare operare il caso. Ha semmai la necessità di “chiamare le cose col nome delle cose”  (come dice lui stesso e nota N. Vacca nella prefazione); oppure di proclamare, in maniera ellittica, una fisicità, “indagare  il proprio e l’altrui corpo, le cellule, le molecole del nostro animo” (G.R. Manzoni su L’Attenzione). Può darsi, ma credo ci sia altro: ovvero un corpo/identità e un corpo/memoria, molteplici e sfuggenti come la poesia. In versi come questi, molto meno ascrivibili a una tradizione di quello che potrebbe far comodo, l’io (ma anche il tu impersonale) sembra diventare un puro fatto grammaticale, se lo si confronta con un corpo sistema di segni, radicato nel corpus testuale a proclamare  un’identità che è di uno (il poeta) e di molti, con un superamento deciso di un certo tipo di lirismo. E inoltre questa scelta permette a Fabbri, quando lo ritiene opportuno, di praticare un vero rovesciamento del dato biografico, su almeno due piani: uno quando, come girando un interruttore, passa da un tu maschile ad un tu eteronimo femminile, con uno sguardo che comprende pietosamente l’umano nella sua interezza (esemplare - e bella - in questo senso “Da questa riva...”, nella sezione “Presa di posizione”). L’altro quando sembra assumere su di sé, empaticamente,  il dolore, la sopportazione e la sublimazione del male che (ipotizzo) appartiene in realtà a qualcuno a lui prossimo (e qui non ci sono esempi specifici da fare, salvo le diffuse isotopie medicali che rimandano a dolorose esperienze) o a quella matrice femminile cui accennavo prima. C’è naturalmente moltissimo privato in questo, e una  conseguente grande generosità nell’offrirlo, una intimità affettuosa con il lettore, proprio perché, io credo, una poesia dell’umano come questa non può essere del tutto “riservata”.
E poi, si diceva, c’è un corpo/memoria, un tramite con la psiche o l’anima o i nostri sogni o quella cosa indissolubile che siamo: “Hai deciso di auscultare / la parte del cervello / che più conserva l’ambiente / nell’utero, di quando, / all’infinito, / ricalcolavi il sogno dei sorrisi.” E ancora: “Forse le tue profondità / non ti rispondono – non sanno / indicarti la strada / che ti conduca al panico / dove potresti / di fede infettarti a poco a poco”. E anche “Le tue ossa stanotte hanno parlato a lungo dei loro sogni / tu le hai ascoltate / con la premura di una madre”. Qui insomma il corpo è ancora luogo di significati, ma può anche (o rischia di) diventare un luogo di dimissioni, di infrazione psichica, inabitabile, alienato, come in “Oggi mi sento spostato in avanti”, ma in maniera ancora più incisiva nel poemetto, ironico e tragico, di “Piccole prose della sinapsi”. Qui, sopratutto nel nucleo centrale, si rappresenta addirittura un teatro dell’espropriazione di sé, giocato proprio sul progressivo passaggio dall’identità all’alterità, che non può che richiamare significativamente alla memoria il Gregorio Samsa della kafkiana Metamorfosi. Entrambi i testi citati sono compresi nella sezione "Stato di vigilanza” che dà titolo al libro:  a mio avviso, insieme a “Presa di posizione”, quella più decisamente innovativa per stile e contenuti rispetto alle prove precedenti di Fabbri. C’è anche, infine, la fine, quella del testo che chiude il libro (“Hai venduto il tuo sistema nervoso. / L’hai dato / via per poco, come se fosse / qualcosa di funesto da tenere”), ma anche la piccola morte orgasmica (“Il diaccio venire su dal circolo profondo”, presente in due versioni), o la surreale opzione suicidale di “Sei entrata con la pistola...”, nella sezione “Presa di posizione”. Insomma, in questa ipotesi di lettura il corpo sembra assumere una posizione predominante, sebbene non sia mai o solamente un oggetto o un campo di battaglia (per quanto sia trasversalmente presente anche questo accenno tematico), ma direi un mezzo espressivo come potrebbe esserlo per un attore o un performer, un autentico linguaggio, o meglio ancora un modello di interpretazione del mondo.
Non vorrei però con queste note dare l’impressione che tutto ruoti intorno a questa lettura, e perciò  avevo parlato di sensazione forse fuorviante. Perchè poi le ragioni della felicità di una lettura che attraversa la complessità del libro, la sua del tutto apparente discontinuità risiedono anche altrove. Per esempio, nelle scelte stilistiche, sempre fortemente significanti rispetto al testo e per questo così diversificate: la struttura nettamente narrativa di “Piccole prose della sinapsi”, in cui il dettato esige di svincolarsi dalle limitazioni del verso, per quanto libero possa essere, raggiungendo proprio in questo modo un alto grado di comunicazione poetica; la prosa intercalata da un denso recitativo in “Presa di posizione” (ma anche altrove), espressa in brani che potrebbero ottimamente essere detti a due voci; ma anche tutto il tessuto connettivo dei brevi componimenti in cui si esplicano piccole epifanie, oggetti rivelazione, e in cui riaffiora un lirismo deciso (“Il geranio, di questi tempi, / profuma tutto intorno. // Rosso, accoglie legazioni di insetti.”, ma vedi anche la bella “Ci meritiamo, ogni mattino…”) e una musica interna che Fabbri sa egregiamente modulare, con la necessaria leggerezza per sottrazione (v. “Al fiore è candido l’intorno…”). Direi per concludere (ma certo il ragionamento su questo bel libro  non è esaustivo), che certo si possono chiamare “le cose col nome delle cose”, e che forse questo può essere fatto con le stesse parole che “escono come incidenti dalla bocca, senza lasciare un senso”, ma per fortuna poi il poeta si incarica di risolvere al meglio questa apparente contraddizione.