Gianluca D'Andrea, Chiusure

01-09-2008
Nella pupilla immaginale del mondo, di Francesco Marotta  
I.
 
Una caratteristica di questo splendido libro (un vero e proprio oggetto alieno nel panorama omologato e privo di respiro della poesia che in genere oggi si pubblica e si legge), rintracciabile immediatamente in tutte le sezioni in cui si articola (stanze/stazioni di/in un ciclico percorso di rinascita e rifrazione del mondo attraverso gli specchi del corpo), è la tensione costante, ininterrotta, a un’estrema rarefazione del linguaggio, delle sue strutture e dei suoi nessi costitutivi, in chiave deliberatamente allegorica: la costruzione ricorsiva di una vera e propria sintassi immaginale, tutta legata alla terrestrità in cui sorge e declina la vicenda degli esseri da cui scaturisce e di cui rappresenta il confine.
    
Credo che all’origine dell’opera vi sia nell’autore, a livelli di più o meno chiara consapevolezza in fase progettuale, una lunga consuetudine di studi e di riflessioni che, in parecchi testi (alcuni veramente di pregevolissima fattura, di grande fascino, spessore e maturità espressiva), concorre a saldare, in un abbraccio claustrale (il titolo è, e non certo a caso, eloquente anche in questo senso), il fervore e lo stupor mundi della poesia delle origini, con le più scoperte, e tendenzialmente opposte, opzioni filosofiche ed estetiche che sono state elaborate nel corso degli ultimi decenni sulle ceneri del moderno.  Nello stesso tempo, non è difficile ipotizzare un incessante, puntuale e contrapposto labor limae, su ogni singolo testo e sull’insieme, un lavoro artigianale di cesello teso a riportare la materia poematica esattamente all’istante della sua accensione primigenia, cercando di salvaguardarne al massimo il nucleo ideativo dalle stratificazioni e dalle suggestioni culturali attraversate, rielaborate e poi disposte ai margini.
 
In sostanza, D’Andrea prende le mosse, in questo suo elaboratissimo, discensionale itinerarium mentis ad res, dalla piena consapevolezza, con tutto il carico, il peso e le ferite che comporta (il Rimbaud, richiamato in un esergo, ne è una esplicita conferma), dell’implosione, al fuoco generatore/demolitore della sua stessa illusoria immagine, di ogni ipotesi di unicità, e di conseguente razionale fondazione normativa ed ermeneutica del reale, fatta propria da un pensiero che non solo, aristotelicamente, esclude il tertium, ma azzera totalmente, alla luce di questa rimozione preventiva, anche qualsiasi opzione, di natura dialettica o, a specchi rovesciati, dichiaratamente contemplativa, che ponga in essere, pur da opposti orizzonti, l’esistenza di una alterità naturale, ineludibile, contrapposta al piano della pura concettualizzazione.
 
 Il bersaglio, mai esplicitamente dichiarato, ma ben presente di fronte al mirino critico e all’operato creativo del poeta, è grande e facilmente identificabile; altrettanto generoso il tentativo di colpirlo al cuore: gettando i semi di un agire della/nella scrittura (un ritorno al poiein originario) che faccia terra bruciata degli alfabeti, parimenti agonizzanti per ipertrofia, della mimesi e dell’ascesi. I suoi testi vengono a prefigurare, quindi, una distesa frastagliata, un campo a balze irregolari, per molti versi affatto nuovo e sconosciuto, che si annuncia allo sguardo quasi interamente da esplorare, prima ancora di essere arato e messo a coltura: un terreno dove il tertium espropriato dalla modernità e dai suoi furori assolutistici cerca di ridefinirsi come corpo in movimento che aspira a farsi volto, proprio mentre si osserva, e si lascia osservare, nel suo costituirsi in forme sempre aperte alla metamorfosi (in primis del sentire): e già con la sua semplice presenza, appena intuibile o solo vagamente udibile e percepita, illumina i segni (la pagina, l’inchiostro e le parole) di una luce diversa.
 
 
II. 
 
Il piano allegorico si realizza in un percorso ellittico di accensioni e di stasi riflessive, alla cui base sono rintracciabili e ricostruibili in ogni momento, in modo particolarmente evidente nella sesta parte dell’opera, i fondamenti teorici e le intuizioni di poetica da cui muove e in cui si risolve. A ulteriore riprova, tra l’altro, della necessità di un pensiero che indirizzi e guidi il lavoro di scrittura, e che si definisca, si arricchisca, muti pelle all’occorrenza, nel farsi stesso dell’opera: che diventa completamento e costruzione in altre forme del dato interiorizzato dal pensiero, da una parte, e, dall’altra, superamento, senza possibilità di ritorno, del dettato da cui è scaturita la prima traccia.
    
     Alla luce di una siffatta visione dell’atto stesso della scrittura poetica, tutta dominata, e tutta risolta, dal/nel “gioco semplice dell’origine ormai sgravato da incombenze metafisiche”, la “chiusura” diventa l’estremo azzardo della visione, tra “adorazione” e “separazione”, di un universo colto nella dimensione inafferrabile (indicibile e indecidibile) del suo perpetuo nascere e trasformarsi: tra le pieghe, gli anfratti, i dirupi, gli abissi e i voli di un mondo storicamente dato, che si organizza, da sempre, proprio in funzione della loro negazione, estranei e refrattari come sono – in quanto luoghi fisici e figurazioni dell’erratica oltranza che conservano - alla logica del controllo (del “possesso”) e della normalizzazione. Ne emerge il disegno di un’etica aurorale, di ascendenza chiaramente nietzscheana, ma priva, scientemente, di qualsiasi pulsione superomistica, che risospingerebbe la parola nel cielo ciclico delle ipostasi sapienziali altrimenti mascherate.
 
     E infatti, è proprio la “sproiezione d’origine”, “l’incredibile varietà del reale”, “l’insensato”, a sostanziarsi a contatto del “sentire migrante del poeta”: ed è una sostanza ancor essa in perenne mutazione, in inquieta e irrisolta ricerca di dimora, nell’alternanza di forme che ogni volta rinascono, in sembianti nuovi e diversi, dal loro stesso negarsi: l’ethos poietico è ascolto di ciò che trascorre, è trasformazione intuitiva, senza mediazioni, di ogni io/sé in noi: l’attimo che ci rimanda nel mondo con gli occhi colmi di un mondo nuovo intravisto ad ogni svolta di respiro, alla prima radice del pensiero e della parola: tra “abbandono” e “distanza”: come “ascoltare la carne / che rimpolpa per la scossa di uno stimolo / e schiuderne il senso in una gabbia di luce”: una luce “vera”, reale e concreta, “come l’erosione continua / che ci vive / l’espulsione che ci trasforma”.
 
III.
 
 
Ho accennato precedentemente alla letteratura delle origini (l’infanzia della scrittura) per uno scopo ben preciso, dettato unicamente dagli echi e dalle risonanze udibili all’interno dell’intero percorso poetico. Il riferimento, comunque, si presta a molteplici interrogazioni/interpretazioni, non ultima la ricezione (possibile) del libro come una costellazione di senhal di natura amorosa (in cui è riconoscibile l’istanza della spinta conoscitiva quale tensione fondante), quasi un mosaico costruito dalle mani e dall’immaginazione insatura, allo stato nascente, di un bambino: segni di diversa origine e natura, sicuramente, anche contraddittori, reiterati al fuoco della percezione di minime sfumature, che trovano la loro esatta collocazione nel piano complessivo del libro: un vero concept, anche se definibile tale, a parametri rovesciati, solo a posteriori.
 
     E, infatti, mi piace pensarlo e vederlo costituirsi a tappe, in corso d’opera, soggetto a smottamenti e rimescolamenti successivi (nel dettato, nel timbro, nei colori, nel ritmo segmentato, nell’alternanza di scoperta e riflessione, nell’invenzione) fino all’approdo alla sintesi, necessaria, sgrossata dell’inessenziale, che ogni testo contempla e propone, comprese le note di poetica dell’ultima parte, che non costituiscono una più o meno utile e luminosa chiosa dei testi/tracce lasciati sul sentiero, ma sono materia e sostanza esse stesse di accensioni liriche senza vocazione di canto, essenziali distrattori/attrattori di una sottile, sotterranea corrente erotica da cui ogni verso si genera: “nella distrazione è rappresentato il solido ancoraggio di una libertà infantile. Ogni riflessione sulla poesia parla di una creazione, di un’immagine che si sviluppa da lacerti analogici (astratti?) o metaforici, in una parola: da uno slancio d’amore”.
 
IV. 
 
Chiusura/e”, dunque: clausura, claustrum: il massimo della contrazione e della riduzione dello spazio immenso, compreso quello interiore e quello, indefinibile, della scrittura, a un dove abitabile e vivibile, a misura di finitudine e divenire; e, nello stesso tempo, il massimo dell’apertura possibile, proprio in ragione della finitudine, rispetto all’infinito-nulla che, inesorabile, spinge, con gli esiti tragici che conosciamo, a trascendere la datità, e il limite ontologico che ne è la cifra. Il risultato è l’artificiosa gerarchizzazione degli enti e la loro definizione e riduzione in chiave di utilità e di possesso, l’espropriazione delle forme del desiderio, ridotte a simulacri, deprivate di radicalità e reificate: all’interno di un quadro astratto che si perpetua, immutato e immutabile, con effetti devastanti sullo sguardo che muove, per legge non scritta di natura, verso ogni cosa che vive.
 
     Solo la poesia che sa farsi corpo e abitacolo senziente dell’evento che trascorre, e nel quale, ignari, noi stessi trascorriamo, trapassando di giorno in giorno in altre forme e in altre voci, ha la capacità/possibilità di ricordare che “la pupilla è l’argano / il meccanismo di un’altra costruzione”: ed è questa “memoria”, incisa a caratteri di fuoco nelle sue cellule e in ogni suo tessuto vitale, che va riportata alla luce, e fatta agire: con l’ostinazione di chi scava la roccia alla ricerca dell’unica goccia che lo salva, perché sa che la pietra conserva sempre, come suo orizzonte ultimo e destino, tracce di ogni trascorsa acqua. “L'acqua s'incanala / sulle teste vegetali, / la pietra resta / e comunica l'attrazione / di distanze incidenti, / traiettorie cosmiche”.
 
V.  
 
Nella cornice allegorica dell’opera appare, attraverso tutta una serie di segnali e di indizi, intermittenti ma concreti, disseminati ad arte, chiaramente leggibile in tutta la sua estensione, soprattutto quando emerge con piena forza e in piena luce, il refe simbolico (“il filo che conduce al globo d’acqua / oltre l’immagine raccolta”) col quale la mano del poeta cerca di assiemare le tessere del mosaico (“Ogni fibra è un tassello, un abbraccio / che la carne non trattiene”); anche se, come è facile intuire, date le premesse, il suo sguardo è naturalmente rivolto verso il basso, verso la componente materiale, la parte visibile e tangibile del symbolon stesso.
 
     E infatti, del simbolo/archetipo per eccellenza della metamorfosi e della rinascita, della fenice bachelardiana (ogni “icona” è una “fenice inarginabile”), che pure lascia imprimersi fra le pagine il profumo e l’eco dell’ultimo volo consumato prima delle fiamme, l’autore preferisce contemplare la cenere, nella quale immerge a fondo le mani, piuttosto che levare lo sguardo verso l’alto, alla ricerca di un inesistente chiarore, di un barlume, una scintilla del rogo ormai estinto: perché è dalla cenere, dalla consunzione contemporanea della dimora e delle ali, così come, di riflesso, dalla percezione carnale della limitatezza del pensiero e delle sue immagini usuali, orizzontali (quelle che definiscono i reticoli di un illusorio possesso di ogni attimo e di ogni spazio del vivente, e trasformano la sua rappresentazione in forme esasperate e utilitaristiche di fruizione-possesso) che la ri-generazione può aver luogo: nell’abbraccio, nella “fusione in assenza di punti”: nella “luce” strappata dall’ombra, la luce superstite a cui l’ombra recisa strappa ogni “cavia adescata dalla luce” stessa (Yang Lian).
 
 
 
 
 
VI. 
 
In che modo è possibile restituire sulla pagina il profilo migrante di queste intuizioni, con quale inchiostro dare voce e volto alle domande inesprimibili che si trascinano? A quale alfabeto, che non sia pura idealizzazione e trascendenza del dato, finzione di innocenza, è necessario far ricorso, in assenza di altri sguardi oltre il nostro? E’ proprio qui, nel fuoco di queste domande essenziali, nella scelta decisiva del medium espressivo, che l’intuizione iniziale si fa scrittura visibile, traccia vivente della copula tra soggetto e mondo: il poeta, infatti, dispone il suo corpo, in tutte le sue articolazioni senzienti, dal più piccolo degli organi e dei recessi epidermici alla complessità elementare/elementale del pensiero, in posizione fetale, di abbandono, di totale e assoluto ascolto di ogni riverbero, di ogni più lontana e profonda vibrazione del reale, come una membrana docile e flessibile che si lascia attraversare e modificare in ogni sua fibra da ogni suono esistente, da quelli che arrivano ad ondate, solitari o simultanei, a quelli di cui è dato percepire solo la possibilità di essere e di affidarsi all’aria, così come alla carne, perché già, o non-ancora, o non-mai stati.
 
     Ogni testo è la trascrizione per barlumi, per immagini frante, di questo amplesso, di questa immersione, di questo ascolto in cui anche il pensiero e la parola sono parte integrante del moto, parte agente e agita nello stesso tempo, occhio che guarda e visione che nasce, e si offre, all’occhio della metamorfosi incessante dell’esistente. Un processo nel quale “la carne piana si spegne / … / nel nodo del trapasso”, il maschile si travasa nel femminile e il nuovo corpo è un essere plurale, un’unità duale: che si fa radice che spunta al primo albore, e arbusto che declina al tramonto; seno che allatta se stesso nell’altro che tende le labbra; o pietra che resta e resiste, in piena corrente, perche vi si àncori il senso, prima che il senso stesso, e il pensiero che lo produce, siano di nuovo soglia di trasformazione, fuoco che alimenta certezze e cenere che dalle certezze, ormai spente, ri-plasma il colore che avvicina ogni essere al confine più prossimo allo sguardo: lo allontana, lo perde, lo riabbraccia, lo possiede per un attimo, perché in quell’attimo si possiede - senza nessun possesso: come se “…schioccassero perle / ad ogni flusso del sangue, / un cielo prezioso si adagiasse / su un minuto sereno del mondo / e il mio corpo / fosse la costellazione del tuo viso / la più intima cellula del cosmo”.
 
VII.
 
 
Non c’è nessuna voluptas panica che muove, indirizza e dispone questi versi, nessun indizio che rimandi, a qualsiasi titolo, alla preminenza del ruolo del poeta all’interno della struttura profonda del vivente, alla sua funzione di veggente la cui pupilla restituisce bagliori del mistero indicibile che lega tutte le cose. Illuminata dal lampo terrestre di un “misticismo carnale”, la poesia non è altro che un “abbraccio tra due forme di materia che, entrando in contatto, modificano il conforme e provocano una trasformazione del reale. La poesia è libertà di essere il mondo”. 
 
     Qui il poeta non ha saperi da rivelare o verità ultime da rendere chiare allo sguardo di chi legge: solo lo stupore, senz’altra finalità che essere, e essere corpo in un verso, di chi si dispone a farsi attraversare dal mondo senza finzioni e senza nessun altro schermo che non sia l’innata, dis-coperta tensione all’ascolto, la disposizione aurorale di chi si osserva mutare in quel ciclo incessante di trasformazioni, di opposti che si rovesciano l’uno nell’altro senza soluzione di continuità. Egli osserva non solo il suo corpo diventare altro e le voci mutarsi in visioni, ma lo stesso pensiero cambiare pelle, ritornare ogni volta nudo alla sorgente del suo farsi radice di comprensione senza oggetto, con in più la consapevolezza, acquisita nella traversata, di essere cosa- tra- le- cose, di dovere ad ogni accensione, nella de-cisione che ordina e rende trasparente e leggibile il reale, immergersi nella libertà senza confini del suo rovescio, del suo fondo oscuro.
 
     Anche la figura femminile (le figure: molteplici volti di uno stesso corpo) che attraversa le pagine trascinando di verso in verso il carico di una sensualità diffusa, prorompente erotica vitalità e cura materna di ogni cosa allo stesso tempo, altro non è che una figurazione carnale, concreta, agente, del respiro profondo del mondo chiuso nella dimora delle sue perpetue e cangianti trasformazioni, una dimora che si dilata ad ogni nuovo soffio fino a comprendere e a diventare uno con tutto ciò che esiste: un senhal di impronta platonico-stilnovistica (penso in particolare a Cavalcanti) , forse, ma senza nessun contenuto, nessun anelito ideale o trascendente, solo l’estremo bagliore che segna, nella durata interminabile di un lampo, la coscienza e il confine di una ontologica mancanza e di una irripetibile e indicibile pienezza.
 
VIII.
 
Se l’oggetto del libro-visione è il mondo, percepito alle soglie del suo primo apparire, nell’attimo in cui si dispiega in molteplicità vivente, senziente e desiderante, l’opera di trascrizione non può che risolversi nella lineare complessità della creazione stessa, con tutta la costellazione di simboli (anche in questo caso, nell’esatta accezione di cui si è detto sopra) che ne reggono e orientano la struttura.
 
     Il libro-mondo è diviso esattamente in sei parti (i giorni della creazione) che si richiamano, si rovesciano e si confondono in ogni testo, lasciando ognuna una traccia di sé nel ciclico dispiegarsi e trascorrere delle altre: per cui, alla fine della lettura (soprattutto se la lettura si è fatta essa stessa ascolto degli echi profondi della parola-evento, e si è disposta alla stessa erranza metamorfica che ne è la materia e il respiro profondo), si può anche rintracciare il momento genetico dell’opera nella sezione che sembra apporre il sigillo definitivo: momento genetico che, a ulteriore riprova della circolarità del moto che i testi accendono, può essere di nuovo individuato in una qualsiasi delle stazioni centrali dell’intero percorso.
IX.
 
Svista d’origine”, il primo movimento dell’intera sinfonia in calando, dissonante, a ritroso e a rovescio nell’universo dell’udibile-dato, immerge immediatamente il lettore nella dimensione del pensiero che si interroga sull’illusione di poter restituire lo sguardo aurorale dell’origine senza entrare a far parte, res inter res, della genesi in cui tutte le cose si danno col loro primo, impronunciabile nome: dove-quando “lo scarto è un polo di luce, / un globo d'acqua che scivola / dalla scarpata impassibile”. Perché ciò avvenga, non può che deporre le categorie di cui è motore e sintesi, in primis la sintassi che ordina e riduce l’ente a oggetto e la sua unicità e irripetibilità ad anello seriale della catena dell’utile (“Il gesto della luce opporre / alla focalità del disegno”), e, restituito alla sua potenzialità intatta, libera da qualsiasi sovrastruttura finalistica, ideale o materiale che sia, disporsi all’ascolto del suo stesso mostrarsi, e mutare, sul pentagramma del reale: una nota, un suono semplice ed elementare, nel silenzio dell’incessante, inestinguibile concerto del mondo.
 
     “Religio”, in assoluto una delle parti più belle e strutturalmente seminali dell’opera, individua il punto, all’interno della pupilla immaginale del mondo, dove il legame si costruisce e si salda “su una trama di equilibri instabili”. E il legame auspicato si definisce, subito, nella dimensione interrogante, di matrice blochiana, dell’anelito e della speranza, non certo come un postulato di certezze: “Se religio fosse blocco di parola / che assorbisse il possesso / ancora il nostro corpo improprio / invece della luce inarginabile / l’esterno di una libera impotenza”. Il legame è il percorso, il transito, l’immagine che il corpo si trascina di sentiero in sentiero colmando di passi il vuoto che attraversa: è il senso di ininterrotti passaggi di stato (di essere) – migrazioni – alla ricerca di un’altra immagine nella quale perdersi, fondersi, per colorare di suoni altri tratti di nulla: “sarà renderlo il corpo / il dono slabbrato oltre il dolore / l’altra materia”.
 
     Nella terza parte, “Rivoluzione”, pensiero e poesia sono già parte del processo metamorfico che li rende inconciliabili e incompatibili rispetto a qualsiasi categorizzazione o de-finizione d’uso comune (sempre altra, del resto, rispetto all’in-sé in cui si esprime l’assoluta libertà di essere in quanto e in quello che sono). Sono già altrove, infatti, avendo perso, inglobati nelle maglie trasparenti del processo, l’uno, la sua funzione d’ordine (i testi sfuggono al controllo, declinano in lente, vertiginose sottrazioni di senso, dovute alla rarefazione dei nessi logici e dei funtori che regolano l’immediata fruibilità ordinatrice – il possesso – del reale e la sua riduzione all’universo parziale della frontalità e dell’oggettualizzazione); l’altra, la sua univoca dicibilità in funzione, escludente ogni altra opzione, esclusivamente di canto. Il risultato è la consapevolezza e la tenuta, salda, dei meccanismi teorici e della tra-duzione del dettato in versi: un colpo, di notevole forza, calmo e feroce nello stesso tempo, portato, contemporaneamente, tanto contro la rappresentazione mimetica, che restituisce sempre, di ciò che esiste, unicamente quello che desideriamo, o siamo in grado di, possedere e manipolare, quanto contro la cantabilità fine a se stessa, che nella sua eterna, immutabile staticità, fa di un finalismo consolatorio la sua sola, inutile perché sola, ragion d’essere. E infatti,  “qualcuno voleva adattare / le pieghe paziente / attendere un risultato /senza inventare l’obiettivo / ma il salto è forma del tragitto / l’inclusione tragica / l’espansione rivolutiva della carne”.
 
 
     Se “il salto è forma del tragitto”, l’invenzione dell’obiettivo, l’ “inclusione tragica” è la percezione dell’essere in quanto mistero, termine che ci riporta, non a caso, accolto nella sua primitiva valenza etimologica, alla “clausura”, al “clausum” di cui si diceva all’inizio: all’infinitamente grande che si riduce a misura di finitudine, e alla smisurata apertura/argine contro il nulla a cui dispone lo spirito liberato. E’ quanto emerge dai flussi e dai flutti della quarta parte, “Diversi cerchi”, dove l’unità duale osserva se stessa, con occhi prima in-pensabili, nella corrente incessante che riporta ogni cosa a un ordine increato, al prima di ogni significazione escludente (con “gli occhi stretti stretti / che non sanno le parole”): là dove “… non c’è nome che io possa dare” a ogni “scorcio inatteso della pelle”.
 
In “Migrazioni”, quasi a (e)semplificare e a esemplare in figure e profili definiti la ripresa di uno dei temi fondanti dell’opera, la persistenza del legame (religio) si fa cifra ricorsiva, metafora mobile che si innerva, col carico raccolto di soglia in soglia, fino a sciogliersi, in tutta la sua pienezza, nella parola che racchiude, contemporaneamente, il contenuto e la forma del viaggio: l’inizio, forse, di un nuovo alfabeto: “la nostra è religione di contatto / lo scorcio che intravede l’apertura / gli astri nella radura una cascata / di corpi, un abbraccio della distanza / che ti scuote”. Anche la tensione erotica, mai placata, che si insinua in ogni anfratto della visione e delle immagini che contiene, rivela qui il suo vero volto: è l’alterità del reale, il puro suono, il principio metamorfico femminile che è origine di ogni voce, poesia: perché ogni “battito è la sagoma di donna / risuscitata per sempre / esposta nel mondo”. In sostanza, e utilizzando in parte un motivo vicino al primo Bonnefoy, il mondo che nel verso si rigenera e rinasce, si ex-pone al mondo: il punto di coincidenza, cercato e trovato, del clausum col massimo dell’apertura e della visibilità: a dire, con l’estensione (in)finita di tutto ciò che vive.
 
     In “Adorazione”, la sezione che chiude il cerchio (e lo ri-apre), l’atto reverenziale d’amore si esprime nella ripresa di voce, nella ri-conquista di una parola che può dire, come in un officium carnale, l’ordine senza possesso del mondo, senza che la lingua, esplosa e rinata alla sua infanzia, si costringa ancora a incanalare, a frammentare, a descrivere e a s-piegare ciò che è irrisolta e irresolubile passione delle cose a essere e passare. L’adorazione conserva intatto lo stupore della prima volta (“Saremo l’abbraccio che resiste /e l’amore della nostra mancanza”), e, nella sua struggente sollecitudine di immergersi e lasciarsi attraversare dalla sua corrente, è raccoglimento, separazione (“chiusura”), rispetto alla sistematica di un esistente privato della libertà di trascorrere e di dirsi nei suoi infiniti accenti: di specchiarsi a ogni sguardo nel coro inesauribile dei suoi riflessi e dei suoi echi profondi. La poesia è lo sguardo plurale che dal cuore del mondo risponde al nostro sguardo e lo contiene: è un “noi” che scrive nei giorni i segni di un “compito inatteso”: “come allacciare canestri / formare le frasi di nubi e bambini /abbracciandone il grembo”.