Giorgio Caproni, Amore, com'è ferito il secolo

10-03-2007

Caproni legge romanzando, di Massimo Natale

“La mia vocazione, la mia ambizione, ecco, diciamo, era quella di fare il narratore”. Lo confessava in una conversazione radiofonica Giorgio Caproni, due anni prima di andarsene.
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Ma soprattutto colpiscono per lo spiccato senso narrativo caproniano – il suo brio – che si insinua anche nei riassunti dei romanzi in apertura di ciascuna scheda, e li trasforma in racconti-lampo, con attacchi spesso seduttivi o ironici, non di rado già disponibili a un primo sguardo critico (“più che di un racconto in senso classico, si tratta d’una sorta di ballata in prosa”, si legge in incipit a proposito di un romanzo scandinavo). Del resto la dimensione del racconto (è stato lo stesso Caproni a ricordarlo) è quasi sempre presente anche nella sua scrittura in versi. E c’è molto di romanzesco, in Caproni poeta, e di impuro in quanto opposto a un’idea assoluta di lirica, anche grazie al suo legame vario col Femminile, rappresentato dalla figura – leopardiana – della fanciulla morta presto, dalla madre Anna, o dalla moglie Rina.
Quest’ultima è il centro delle lettere inedite e delle poesie che compongono Amore, com’è ferito il secolo. Poesie e lettere alla moglie (Manni, pp. 109, 12,00 euro) per la cura – di nuovo inappuntabile – di Stefano Verdino. Si entra, con il drappello di lettere pubblicate qui per la prima volta, nel vivo del rapporto quotidiano tra la sposa Rina e il soldato Giorgio, fatto di piccole attenzioni, scorci familiari, e grande tenerezza reciproca. La scelta antologica di testi compiuta da Verdino ricostruisce poi una sorta di storia – appunto – della presenza della moglie del percorso poetico di Caproni: inseguire questa figura femminile – oggetto di un canzoniere non riunito in un unico libro, ma sparso e costante in diverse opere – anche nel suo sovrapporsi o differenziarsi dalle altre figure di donna (un po’ come succede in Montale) frutta molto, con Caproni. Si veda, anche in sede di commento, il caso della bellissima L’ascensore, scritta nel 1948, in cui Rina è destinataria di una rosa poi mutata “in veleno”, personaggio quasi autentico alla vera protagonista di questa poesia, la madre, che di lì a un decennio, nel ’59, diventerà l’indimenticabile Annina del Seme del piangere.